Sedendosi di fronte a Sally Potter, si ha da subito la consapevolezza di trovarsi davanti ad una figura che ha rivoluzionato il mondo del cinema e la sensazione che lo scambio di domande e risposte non sarà una semplice intervista, ma più un flusso creativo e, come direbbe lei, fluido, tra lavoro, vita e libertà.
30 anni dopo il successo clamoroso con “Orlando“, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, la regista Sally Potter torna al Lido, ma questa volta lo fa con un cortometraggio, “Look at me”, una storia dove sentimenti e musica fanno da co-protagonisti alla coppia formata da Chris Rock e Javier Bardem. In 16 minuti, Sally Potter scava nelle viscere della rabbia e dell’incomprensione per trovare, in quella cornice definita data dalla forma del corto, un nuovo senso al concetto di “libertà“. Un sentimento forte e struggente che si muove su note che possono andare da quelle prodotte con una batteria a quelle più nostalgiche del tango, sulle quale Sally ha imparato a danzare nel tempo per permettere a se stessa di evolversi (come regista e persona) e di andare a fondo nelle cose in cui crede, sempre facendo ciò che più ama al mondo: lavorare, lavorare e ancora lavorare.
Prima di tutto, complimenti per il tuo cortometraggio, ho amato l’interazione tra Chris Rock e Javier Bardem. Come è nata l’idea di questo progetto? Perché ho letto che doveva far parte del tuo film precedente, “The Roads Not Taken”, dove Javier interpreta un personaggio diverso.
Nella fase di scrittura originale, ho detto loro che sarebbe stato interessante creare una storia all’interno di una storia, dove il personaggio era molto diverso, come se Leo avesse fatto altre scelte nella sua vita e avesse intrapreso una strada diversa. Ma, mentre lo giravo, pensavo: “Sembra un film diverso” [ride]. E poi, quando sono entrata nella sala di montaggio, ho detto: “Questo è un film diverso“. Quindi, ho dovuto rimuoverlo dal film, e poi ho dovuto aspettare un po’ per trasformarlo in un cortometraggio. Era come una storia dentro una storia, così l’ho tirata fuori e l’ho resa un film a sé stante.
Guardandolo, la sensazione che ho avuto è che sembrava quasi parte di un lungometraggio, perché volevo sapere cosa succedeva prima e cosa sarebbe successo nel futuro di questi personaggi. Com’è stato tornare al genere dello short film?
È eccitante in realtà, perché penso che un cortometraggio non sia la versione breve di un film, e non è un esercizio di pratica. A volte, la gente dice che i giovani registi debbano fare un corto, per imparare come si fa, e poi solo in seguito realizzare un lungometraggio; in realtà, è interessante fare il contrario, perché si tratta di una disciplina molto particolare. Devi raccontare una storia in un breve periodo di tempo che abbia un inizio, metà e fine, che abbia uno sviluppo, un elemento di sorpresa, che presenti grandi temi ma senza dare spiegazioni. È una disciplina meravigliosa, ti fa tagliare via tutto ciò che non è importante e attenersi solo a ciò che è importante.
“A volte, la gente dice che i giovani registi debbano fare un corto, per imparare come si fa, e poi solo in seguito realizzare un lungometraggio; in realtà, è interessante fare il contrario, perché si tratta di una disciplina molto particolare”.
Quello che ho trovato interessante, mentre guardavo lo guardavo, è come i concetti di libertà e prigionia si fondano tra loro. Leo, ad esempio, suona la batteria in una struttura cubica che richiama quasi una gabbia, e le percussioni rappresentano per lui l’emblema della libertà perché quando suona, si sente completamente libero. Cosa significa per te il concetto di “libertà”, sia nell’arte che nella vita?
Richiamando quello che ci siamo dette sul cortometraggio: si potrebbe dire che la forma breve rappresenti una gabbia, perché ha i suoi vincoli, ma si trova comunque la libertà all’interno di quella gabbia, proprio come si trova la libertà all’interno di una sceneggiatura. Una sceneggiatura non include tutto, si fanno delle scelte, e quella volendo rappresenta la gabbia; poi, al suo interno, si trova la libertà. Vale per ogni forma d’arte: un pittore lavora all’interno di una cornice, e non è intesa come una gabbia in senso negativo, è proprio una cornice.
Penso che, per me, come regista, la libertà sia andare in profondità con le cose a cui tengo e in cui credo, anche se non è di moda. Forse, soprattutto se non è di moda [ride]. È meraviglioso se ottieni il sostegno finanziario per esplorare quelle idee, ma a volte ho fatto cose senza supporto finanziario; spesso, scrivo cose prima che nessuno sappia nemmeno che ci sto lavorando fino a quando non è finito. Quindi, penso che la libertà non riguardi tanto il supporto, è più un atteggiamento per permettere a te stesso di andare a fondo con qualcosa in cui credi.
Un altro elemento notevole è l’utilizzo della musica: certo, Javier Bardem è un batterista, ma adoro la scena in cui va sul tetto e poi realizza della musica con le bacchette sui bidoni della spazzatura. Dal momento che sei appassionata anche di musica e composizione, cosa rappresenta la musica in questo film? E com’è stato per te lavorare sulla colonna sonora?
Ho usato la musica in questo film come una contraddizione con quello che succede. Quindi, in un momento triste o quando c’è un’esplosione di rabbia, utilizzo una musica calma, molto delicata. Alla fine del corto poi, c’è il tango, che è una sorta di dedica d’amore, ma che è anche una musica leggermente ironica, e nostalgica, per qualcosa che hai perso. Cerco di scrivere musica che in qualche modo evochi qualcosa che non si vede realmente sullo schermo, ma che crei comunque un’interessante relazione dinamica con ciò che si vede. La musica dà un’energia extra a qualche parte del tuo cervello per collegarsi con i neuroni, non so come descriverlo, perché è metafisico ciò che la musica ti fa. È magico.
Mi è piaciuto alla fine quando i protagonisti si abbracciano e c’è una sorta di musica da ballo del passato che viene riprodotta in sottofondo, è stato molto potente. Il film parla anche di umiliazione e rabbia maschile, con dei protagonisti che non sono in grado di comunicare i loro sentimenti. Quindi, c’è anche questo tema del fraintendimento e di come esprimere i propri sentimenti. Pensi che sia difficile per gli uomini, e per l’umanità in generale, comunicare i propri sentimenti? Qual era il tuo messaggio a riguardo?
Meno ora forse, ma, in generale, gli uomini sono cresciuti cercando di controllare o sopprimere i loro sentimenti, e le donne sono cresciute esprimendo i loro sentimenti. Penso che molte cose difficili accadano agli uomini quando cercano di trattenere i loro sentimenti; poi, questi si rivelano in qualche modo, ma nel modo sbagliato. La rabbia per gli uomini solitamente è una distorsione per qualcos’altro: forse dietro la rabbia c’è tristezza, o solitudine, o frustrazione… Penso che sia davvero complicato per gli uomini.
“Penso che la libertà non riguardi tanto il supporto, è più un atteggiamento per permettere a te stesso di andare a fondo con qualcosa in cui credi”.
Quando Leo è arrabbiato o sopraffatto, si guarda intorno come se stesse cercando qualcosa o qualcuno…
Sta cercando una via d’uscita. E l’unica via d’uscita che conosce è quella di porre fine alla sua vita in realtà, quindi è un momento di disperazione e difficoltà. E in qualche modo trova questa soluzione, ma non può, è intrappolato nei suoi sentimenti. Questo tipo di crisi di salute mentale per gli uomini, è un problema molto grande.
Ultimamente si sta aprendo una discussione a riguardo, per fortuna, ma c’è ancora tanta strada da fare. Mi ha anche colpito il fatto che la premiere di questo cortometraggio si svolga nello stesso luogo in cui “Orlando” ha debuttato 30 anni fa. Mi ha sconvolta, perché io l’ho visto circa 10 anni fa. Come ci si sente a tornare qui, a Venezia, nello stesso scenario? E cosa senti sia cambiato per te e nell’approccio al tuo lavoro in questi 30 anni?
Adoro la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato un momento molto importante nella mia vita quando la premiere di “Orlando” si è tenuta qui. 30 anni dopo… Quindi, prima di tutto, non riesco a crederci, penso: “Davvero? Sei sicuro che non sia stata tipo 6 anni fa?” [Ride].
È una strana sensazione, lo scorrere del tempo… Come sono cambiata? Non lo so. Spero di essere cresciuta un po’. Penso di essere una migliore regista per gli attori di quanto non fossi in passato. Voglio dire, ho avuto l’opportunità con “Orlando” di prepararmi molto con Tilda [Swinton], quindi ho fatto un grande lavoro con lei. Ma ora penso di capire di più molti tipi diversi di attori, e questo è cambiato nel tempo. Non so come rispondere in realtà.
Mi sento uguale e diversa. Ecco perché non posso credere che siano passati 30 anni, perché penso: “Ma sono la stessa persona di allora”. E, allo stesso tempo, non ho mai saputo chi fossi comunque. Non so chi sono, so solo che mi impegno molto in ciò che faccio. Quindi, non penso a me stessa e a come sono, penso alla cosa su cui sto lavorando e alle persone con cui sto lavorando. Il mio focus è all’esterno.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
“Orlando” fu un atto di ribellione, anche se ora non sembra così. Ma a quel tempo, tutti pensavano: “Non puoi fare un film di Virginia Woolf, non puoi fare un film su qualcuno che è un uomo e ora è una donna, nessuno ci crederebbe mai o sarebbe d’accordo”, quindi è stato abbastanza ribelle. E poi, ho compiuto una ribellione dopo “Orlando” (che ha avuto molto successo commerciale e di critica), per dedicarmi ad un film in cui recitavo. È stato ridicolo, era considerato un suicidio per la mia carriera [ride], non si fa e basta. E ci penso spesso, perché ho fatto un film che la gente pensa sia l’opposto di quello che dovresti fare in quel momento.
Qual è la tua più grande paura?
La mia più grande paura è smettere di lavorare, perché amo lavorare. Al momento, sto scrivendo musica; quindi, anche quando non sto girando, sto lavorando tutto il tempo, sia per scrivere che per comporre.
Dobbiamo aspettarci qualcosa di più al riguardo?
Per la musica? Sì.
“La mia più grande paura è smettere di lavorare, perché amo lavorare”.
Cosa ti fa sentire a tuo agio nella tua pelle?
Mi sento molto a mio agio nella mia pelle quando ballo, quando mi muovo. Quando lavoro, mi sento molto a mio agio nella mia pelle. Mi sento più a mio agio quando non penso alla mia pelle [ride], al mio corpo o a qualsiasi altra cosa, solo nello stato di essere, impegnato nelle cose. Quindi, è una fluidità… Sono abbastanza d’accordo con il concetto buddista che il “sé” non esiste. C’è molta enfasi ora sull’identità: “io, io, io, io, io, sono questo, no, sono questo…” Non so chi sono. E preferisco di gran lunga quella sensazione di fluidità nel cambiamento con tutti i livelli della realtà.
Qual è il tuo posto felice?
Lavorare [ride]. Adoro scrivere musica. Adoro lavorare con gli artisti. Adoro fare film.
Un’altra curiosità, visto che stiamo parlando di musica. Che musica ascoltavi mentre lavoravi a “Look at me”?
Avevo già scritto la musica del corto, quindi se ascoltavo qualcosa, era quella. Non ho ascoltato nient’altro. Il silenzio fa bene.
Photos by Luca Ortolani