Un’isola che raccolga il possibile, l’italianità e l’americanità, la natura e la drammaturgia: un’isola molto grande, un’isola così, è dove Sebastiano Pigazzi si vedrebbe per la vita. Se solo esistesse. Ma la finzione e la realtà sono facilmente interscambiabili, forse, quando nella vita fai l’attore.
In onda sull’asse US-IT, Sebastiano ed io abbiamo chiacchierato di doppie culture e doppie vite, Settima Arte, battesimi d’autore, e, soprattutto, di “And Just Like That…”. Nella serie revival e sequel di “Sex and the City”, stagione 2 e 3 attualmente in onda, Sebastiano interpreta Giuseppe, il nuovo compagno di Anthony Marentino.
In equilibrio tra due culture e due continenti, Sebastiano costruisce la sua traiettoria con lucidità e curiosità. Senza davvero cercare rifugi ideali, ma gestendo la pressione e superando i limiti che la macchina della recitazione gli mette davanti.
Il tuo primo ricordo legato al cinema?
Quando ero piccolo andavo al cinema con mia madre, vedevo a volte anche due o tre film al giorno, e il primo che ricordo è “L’ultimo Samurai”.


Hai vissuto negli Stati Uniti per la maggior parte del tempo?
Per lo più sì, anche se venivo in Italia ogni estate da bambino, e da adulto ci ho vissuto per cinque o sei mesi.

Invece, parlando di “And Just Like That”, quando hai saputo di essere ufficialmente nel cast, qual è stata la tua prima reazione?
Mi sono detto: “Vediamo quand’è che ci ripenseranno!” [ride] Il mio istinto mi fa sempre domandare com’è che riuscirò a perderlo il lavoro… [ride]
Finché non sono arrivato sul set, o almeno finché non abbiamo iniziato a fare le letture del copione, ero un po’ scettico e titubante.



Non ci credevi! E invece alla fine sei arrivato alla terza stagione.
Giuseppe è un personaggio poetico, non solo per mestiere ma anche per sensibilità. Quanto di tuo hai messo in lui, e cosa invece hai dovuto inventare?
In realtà, cerco di non pormi troppe domande del genere. Ogni personaggio sono sempre io, ci metto sempre tanto di mio, pur cercando di accentuare certe cose. Non cerco troppo di spiegarmi quanto o quanto meno di qualcosa, cerco di fare quello che sento e se stona, allora cambio approccio e modalità. Secondo me, se fai un lavoro fatto troppo di equazioni, di chimica, il risultato è eccessivamente elaborato e non vorrei mai che il pubblico vedesse il lavoro che c’è dietro.


“…non vorrei mai che il pubblico vedesse il lavoro che c’è dietro.”


C’è un momento, anche piccolo, in cui hai sentito di aver trovato il tuo posto nella storia? Un gesto, una battuta, una scena?
Un po’ te lo fanno capire i registi e le persone che hai intorno, che hai conquistato il tuo posto, che quello che fai piace.
Poi, uno dei primi giorni sul set l’anno scorso dovevamo girare una scena in cui io dovevo baciare Anthony, ovvero Mario Cantone, era il nostro primo bacio: quello è stato un momento speciale, in cui inaspettatamente è stato tutto semplice, fluido, liscio.

A proposito, la serie gioca molto con l’identità, le relazioni, i ruoli di genere. Come vivi tu, da attore e da persona, questa centralità dei temi identitari?
Secondo me ci focalizziamo un po’ troppo su queste cose. Io sono molto per il “vivi e lascia vivere”. Quando diamo troppa importanza al “da dove veniamo” e “con chi andiamo a letto” invece di capire chi siamo, diventa un po’ troppo un etichettare senza riflettere.



“Vivi e lascia vivere”

Il rapporto tra Giuseppe e Anthony è stato una sorpresa nella scorsa stagione. Nella nuova, vediamo questa relazione affrontare nuove sfide: com’è stato esplorare dinamiche di coppia così mature, ma sempre con un sottotono di ironia?
C’è molto di vero in questa relazione che ricorda i rapporti e le amicizie che ho tutt’oggi. Poi io e Mario siamo diventati amici anche fuori dal set, quindi anche quello ha aiutato molto a sperimentare e giocare durante le riprese.



Siamo nel pieno della terza stagione. Senza spoiler, cosa possiamo aspettarci da Giuseppe nei nuovi episodi? Il personaggio si evolve?
Sicuramente, sotto molti aspetti Giuseppe diventa più maturo di Anthony: è pronto a fare cose che forse Anthony non è ancora mentalmente pronto a fare. Giuseppe cerca di portarlo al suo livello di maturità, ma Anthony fa un po’ di resistenza.


Hai esordito in “We Are Who We Are” di Luca Guadagnino: un battesimo d’autore. Quanto ti ha formato quell’esperienza e cosa ti sei portato dietro nei progetti successivi?
Quando fai un’esperienza del genere come prima esperienza, capisci e impari a conoscere la macchina che hai dietro, la pressione che c’è in quell’ambiente. Lì io ho subito capito che mi piaceva quella pressione, mi piaceva avere tanta gente intorno. Quando hai un regista come Luca che ti fa i complimenti, che ti dice cose belle, dopo ti senti un po’ più sicuro negli altri set, perché pensi sempre a quella esperienza che ti ha lanciato e spinto ad essere, appunto, più sicuro delle tue abilità.

“…ho subito capito che mi piaceva quella pressione, mi piaceva avere tanta gente intorno.”

Per te tutto è incominciato con Shakespeare e Miller a scuola. Che cosa ti ha dato quel tipo di formazione, rispetto alla recitazione più “cinematografica”?
Io adoro il teatro! Mi piacerebbe farne di più, ma di teatro ce n’è poco e quello che c’è non è poi così di qualità: il teatro secondo me sta morendo. In America, a Broadway e Off-Broadway fanno ancora delle cose interessanti, ma in Italia mi sembra che oramai facciano solo i superclassici oppure teatro ai fini di sé stesso, per ostentare ma senza nessun tema. Tutto il lavoro che facevamo a scuola mi ha reso più “snob” quando leggo una sceneggiatura oggi.



Ti senti più vicino al cinema che al teatro oggi, quindi?
Non esattamente. Anzi, recitare a teatro è un lavoro più diretto, mentre girare una stessa scena mille volte non è divertente. Amo fare cinema e TV, ma è un lavoro molto più tecnico, mentre a teatro sei molto più libero, il teatro è proprio fatto per gli attori. Il cinema, invece, secondo me è più una forma artistica fatta per i registi.


“il teatro è proprio fatto per gli attori”


Guardando indietro ai tuoi primi provini, o ai tuoi primi passi in questo mondo, che consiglio daresti al te stesso di qualche anno fa?
Forse gli direi di prendere le cose con un po’ più di leggerezza e di avere pazienza.


Qual è l’ultima cosa che hai imparato su te stesso grazie al tuo lavoro?
Secondo me, per interpretare certi ruoli, devi già conoscerti abbastanza bene. Io so che sono capace di tante cose a livello emotivo, e di nuovo ho scoperto che sono diventato più empatico.


“Secondo me, per interpretare certi ruoli, devi già conoscerti abbastanza bene.”


Cosa stai leggendo in questo periodo?
Sto leggendo un libro sugli imperatori romani, un saggio di un’autrice inglese.
Cosa stai ascoltando invece?
Sting e Eric Clapton.


L’ultimo film o serie tv che hai visto e ti è rimasto nel cuore?
“Maestro” di Bradley Cooper. Mi è piaciuto molto, nonostante le opinioni contrastanti. L’ho visto al cinema due volte.
Il tuo più grande atto di coraggio?
Decisamente la scelta di fare l’attore.
La tua più grande paura?
Il tempo, che scorre o che non scorre.
Cosa ti fa sentire al sicuro? E cosa ti fa sentire sicuro di te?
La mia casa, dove sono cresciuto, mi fa sentire al sicuro. Invece, mi fa sentire sicuro di me la certezza che sono sempre onesto e critico con me stesso.


Il panorama che vorresti vedere ogni volta che apri una finestra?
Il verde.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Dovrei risponderti quando ci arrivo! [ride] È un work in progress e penso lo sarà per sempre.
La tua isola felice?
Non credo che esista. Per me, idealmente, dovrebbe essere un posto che unisca la mia parte americana e la mia parte italiana, un’isola molto grande insomma [ride]. La tua?
La mia? Direi dove ci sono le mie persone del cuore.
Giusto, bello.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Styling by Ilaria Di Gasparro.
Grooming by Sveva Del Campo.
Thanks to MPunto Comunicazione.
LOOK 1
Jacket: Uniqlo
T-shirt: Manuel Ritz
Jeans: Uniqlo
Boots: Sonora
LOOK 2
T-shirt: Manuel Ritz
Jacket: Uniqlo
Jeans: Uniqlo
LOOK 3
T-shirt: Sandro Paris
Trousers: Sandro Paris
Boots: Sonora
What do you think?