Ci sono progetti che nascono da una pianificazione razionale, e altri che germogliano da incontri fortuiti, attrazioni istintive e necessità emotive. L’Integrale, pubblicato da Iperborea, appartiene alla seconda categoria. È una rivista indipendente, nata nel 2020 anche grazie al finanziamento di Davide Longoni, che non parla semplicemente di cibo, ma usa il cibo come uno scandaglio profondo, un espediente narrativo per arrivare altrove: alle storie delle persone, alle contraddizioni della società contemporanea, alla bellezza imperfetta dell’essere umani.
Abbiamo incontrato Diletta Sereni, la mente e il cuore dietro questo progetto editoriale per farci raccontare non solo come è nato, ma soprattutto perché. Perché oggi è così urgente parlare di cibo senza cadere nei cliché della gastronomia da esperti, e perché scegliere proprio la cucina come mezzo per parlare di mascolinità, vulnerabilità, potere e trasformazione. Ne è nata una conversazione che è un piccolo viaggio: tra redazioni scomparse e nuove amicizie creative, tra rabbia repressa nelle cucine professionali e lacrime versate di nascosto, tra piatti che uniscono e metafore che dividono. Un dialogo che tocca la tenerezza dell’identità maschile, la forza gentile della fragilità, il potere linguistico delle parole e la consapevolezza che anche il cibo, come tutto ciò che è vivo, è transitorio. Ma proprio per questo capace di lasciare un segno profondo.
In un mondo che ci spinge continuamente a performare, a semplificare, a mostrare solo ciò che funziona, c’è qualcosa di liberatorio nel rivendicare le nostre incertezze e nel cucinare un piatto che, pur destinato a sparire, racconta chi siamo. L’Integrale lo fa con grazia, intelligenza e un’ironia rara. E forse è proprio questo, oggi, il gesto più radicale.
Iniziamo facendo un passo indietro: ci racconti la tua storia e come sei arrivata a capire che volevi parlare di contemporaneità attraverso il cibo con l’Integrale?
Sono finita a scrivere di cibo metà per caso e metà per attrazione verso l’argomento, ma non è che avessi una particolare preparazione venendo da studi completamente diversi. La redazione di Munchies Italia, che era la testata sul cibo di Vice, ha aperto negli anni in cui ho iniziato a scrivere di cibo, quindi, è stata una coincidenza: ho iniziato a scrivere per loro e poi è stato un incontro con persone con cui mi trovavo bene, e che anche loro scrivevano di cibo, e da questi incontri è nata la voglia di fare qualcosa insieme e di voler esplorare l’argomento cibo in modo meno settoriale possibile. Molto spesso il cibo è considerato un argomento per appassionati ed esperti; noi invece volevamo esplorarlo come materiale narrativo più ampio e sfaccettato, quindi usarlo per raccontare le storie delle persone.
Il cibo è “solo” il pretesto iniziale di questo progetto per approfondire la natura umana e, nello specifico, le dinamiche e storie che la rendono così ricca e variegata di sfumature, soprattutto nell’oggi. Che cosa rappresenta per te il cibo, sia in sé che come mezzo di comunicazione universale?
Il cibo è uno scandaglio, è un modo per entrare nelle vite delle persone, è qualcosa di cui dobbiamo occuparci quotidianamente, almeno tre volte al giorno (ride). È legato alle nostre vite, alla nostra memoria, alla nostra parte sentimentale ed intima… Però riguarda anche una dimensione collettiva, politica, economica, culturale… Questa è la premessa dell’Integrale, trattare il cibo come uno strumento per leggere il mondo, nel piccolo e nel grande.
Il nuovo numero, “L’integrale maschio” esplora la dimensione maschile nella cultura del cibo: come è nato questo tema? E come si è sviluppata la costruzione del numero nel tempo?
È nato in maniera diversa dagli altri, da una sorta di insofferenza di notare spesso questi eventi e sezioni di giornale dedicati alle donne nel cibo, le donne nel vino, le donne nel cinema… Ci sembrava una ghettizzazione della rappresentanza femminile in questi campi, e quindi tra amiche e colleghe ci siamo dette di provare a ribaltarla, o se non altro di ribaltare la lente di osservazione, mettere il maschio sotto analisi. E poi, ci sembrava il momento giusto per farlo, visto che è in atto una importante discussione collettiva sulla mascolinità, su come vada ripensata, sia necessario e utile farlo. Abbiamo pensato il tema un anno e mezzo fa, e la discussione è se possibile ancora più viva oggi. Quindi sì, siamo partiti dal tema e poi siamo andati a popolarlo di firme e temi.

“Questa è la premessa dell’Integrale, trattare il cibo come uno strumento per leggere il mondo, nel piccolo e nel grande”.

Come si sviluppa il gestire la coralità di ispirazioni, firme, persone e fatti in un unico progetto? C’è stato un argomento, tra quelli inclusi nel numero, che ti ha particolarmente colpita e sorpresa?
La costruzione del numero, a parte l’inizio un po’ scherzoso, è stata la stessa degli altri. In questo caso, è iniziato con la proposta della firma di Vincenzo Latronico, mentre una delle ultime arrivate è stata quella di Martina Merletti. Sono due pezzi di cui vado particolarmente fiera, anche perché portano all’estremo il legame con il cibo: il pezzo di Latronico parla del lessico del sesso e in particolare di come il sesso orale si tenga lontano dalle metafore alimentari, pur coinvolgendo la bocca e gesti affini al mangiare. Quello della Merletti è anch’esso sulle metafore, su quelle che la scienza e gli scienziati (storicamente in prevalenza maschi) hanno applicato alla botanica per descrivere le piante e sono tutte metafore sessuali e sessualizzanti, c’è sempre un parallelismo con gli organi riproduttivi maschili e femminili ed è almeno arbitrario se non totalmente fuorviante; quindi, lei va un po’ a smontare queste metafore.
Nell’introduzione si parla di essere maschio ma di essere anche fragile, e di come questo aspetto comporti spesso un sentimento di paura, di vulnerabilità. In una società in cui l’aspetto emotivo si fa sentire sempre con più forza e, fortunatamente, si parla sempre più dell’importanza della salute mentale, in che modo, secondo te si può abbracciare la propria fragilità e renderla un valore? Anche grazie alla cucina magari…
In generale forse bisogna rivendicare le insicurezze, la propria vulnerabilità e ansia anche: tutte quelle caratteristiche di morbidezza sono considerate dei difetti, dei limiti. È una cosa che per esempio Charlotte Gainsbourg ha detto più volte nelle interviste: dice che ha imparato ad amare la sua ansia perché quando è a disagio, sente di essere in un territorio di scoperta, di trasformazione. Purtroppo non mi vengono in mente modelli maschili paragonabili, anche se ci sono e ci saranno sempre di più, ma sicuramente la fragilità maschile è meno perdonata di quella femminile. Questa è un po’ la premessa di tutti i nostri pezzi, che ai maschi non si perdona la fragilità, in ogni sua manifestazione, e questo a cascata produce una serie di effetti nefasti.
Poi mi viene in mente un’altra cosa, diversa, che ha scritto Tommaso Melilli nel suo saggio nell’Integrale maschio, che è un saggio che parla della rabbia che circola nelle cucine dei ristoranti, rabbia messa in circolo soprattutto dagli uomini, che spesso la vivono come unica emozione percorribile, siccome si vergognano di piangere. Ecco, la rabbia a me sembra anche un modo per darsi importanza, e Melilli a un certo punto si sofferma su un fatto: su quel momento magico della fine del servizio in cui la tensionesi rilascia e la brigata rimane insieme al ristorante, finalmente senza stress e pressioni. In quel momento, il cibo tanto faticosamente cucinato esiste ancora da qualche parte nei corpi delle persone, ma brevemente, perché dopo qualche ora diventerà letteralmente merda (ride). E quindi il frutto (creativo, umano) di tutta la fatica e lo stress, dopo qualche ora non esiste più, e questo può essere un promemoria, un allenamento al fatto che le cose sono transitorie. Secondo me aiuta a darsi meno importanza, e forse a far pace con le proprie morbidezze.

“Questa è un po’ la premessa di tutti i nostri pezzi, che ai maschi non si perdona la fragilità in ogni sua manifestazione, e questo a cascata produce una serie di effetti nefasti”.

Leggendo invece gli articoli più incentrati sulla figura dello chef, sia professionale che amatoriale, penso ad alcune rappresentazioni sullo schermo degli ultimi anni (una su tutte, The Bear) che lo vedono appunto come un rappresentante del potere e della sensualità priva di emozioni al di fuori di quelle più “primitive”. Sembra quasi che l’uomo, nello specifico, sia validato attraverso quello che fa, piuttosto quello che prova: quali cambiamenti sarebbero necessari, a livello sociale e culturale, per validare la persona in sé, con tutte le sue contraddizioni, emozioni ed azioni?
In “The Bear” lui si arrabbia durante il servizio perché ha molta ansia, però alla fine è un cuoco che piange, anche se lo fa soprattutto di nascosto, è vulnerabile, ha delle complessità di carattere più evidenti rispetto per esempio ai giudici di Masterchef che gridano e umiliano. Entrambi questi modelli hanno contribuito a costruire un immaginario dello chef oggi. Poi, in merito alle disparità di genere, ce ne sono alcune a cui non pensiamo, ad esempio Laura Campiglio nel suo pezzo nota come gli uomini mangino in media il doppio della carne delle donne, nonostante non pesino il doppio e insomma non ne abbiano bisogno. Questa cosa non ha praticamente alcuno spazio nel dibattito pubblico, eppure, è un tema politico, perché vuol dire che la dieta maschile inquina il doppio di quella femminile.
È stato molto interessante poi approfondire la correlazione tra lessico sessuale e culinario: anche qui, forse, sarebbe necessaria una certa educazione perché le parole e le metafore hanno un loro potere e peso, e quindi sono da calibrare con giudizio. Pensando anche al mondo dei social, un’educazione di questo tipo è possibile?
L’educazione al linguaggio è un mondo frastagliatissimo su cui posso solo dire cose parziali. Mi sembra che passi in piccola parte dalle istituzioni e invece molto dalle reti informali di amicizie, e dai media, social compresi. Non ho grossa fiducia che dai social possa uscire qualche forma di educazione, proprio per come sono pensati, cioè sono pensati per fomentare un meccanismo di dipendenza e una ricerca di gratificazione immediata; quindi, mi domando quali contenuti possono passare da una struttura che è pensata con queste logiche.
Si parla in un altro articolo dell’opera di Gadda e della sua passione (tormentata) per il cibo: tu hai un libro, un personaggio, un film o una serie TV legato al mondo della cucina che ti ha particolarmente colpita?
Uno è Anthony Bourdain perché ha cambiato significativamente l’idea del cuoco; lui era un esploratore che faceva una cosa che nel nostro piccolo facciamo anche noi: usare il cibo come scusa per raccontare il mondo e le persone. I suoi racconti, parlo sia dei libri che delle trasmissioni televisive, sono state una grande forma di ispirazione – ci manca! Un altro che ha scritto tanti bei libri sul cibo è Michael Pollan, che ha mostrato come le scelte che facciamo per mangiare siano intricate alle grandi questioni del nostro tempo: ambientali, economiche, politiche.


Molto spazio viene giustamente dato a piatti e ingredienti quindi siamo curiosi: qual’è il tuo piatto preferito?
Dico la parmigiana di melanzane, che è proprio il piatto che vado a prendermi quando mi devo consolare. E poi dico anche un piatto più legato alle mie origini, che è anche l’unico che so cucinare, la pappa al pomodoro.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa grazie anche al tuo lavoro?
Che detesto dire agli altri cosa devono fare; gestire e coordinare le persone non è per niente nella mia indole, forse perché è una cosa che riesco a fare a malapena per me stessa, quindi mi è molto difficile farlo con gli altri.
Il libro o i libri sul tuo comodino in questo momento.
Siccome ho problemi di sonno, prima di dormire leggo sempre libri che ho già letto e riletto, perché mettermi su un libro nuovo mi sveglia troppo. Ora sul comodino delle riletture ho un classico, “Il Grande Gatsby”, che tengo sempre vicino, e “Sogni e favole” di Emanuele Trevi, stupendo. Invece, come prime letture attuali ho un libro di Iperborea che si intitola “Il mio grande e bellissimo odio” di Elisabeth Åsbrink e “La città assediata” di Clarice Lispector.
Ultima domanda “simpatica”: ti hanno mai approcciata, o hai un aneddoto di persone che conosci, con la scusa del “io faccio la carbonara migliore del mondo?”
Mi sento anzianissima perché non ho mai usato le app di incontri e quindi questa storia della carbonara è stata una scoperta anche per me, neanche alle mie amiche è mai capitato. Però la mia ultima storia d’amore è iniziata con la scoperta dei vini naturali: questo ragazzo mi portava a bere vini georgiani, vini del Carso, vini con colori strani, ambrati, vini di cui non avevo sentito parlare (anche perché il vino non mi interessava granché). Era la prima volta che mi fermavo a sentire questo ventaglio di profumi e sapori strani che non associavo neanche al vino. Quindi carbonara no, ma vini sì (ride).
Thanks to Iperborea
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