A Venezia, durante la Mostra del Cinema, si fanno sempre degli incontri bellissimi, che ispirano e che ti ricordano perché ami quello che fai. E ci sono certi incontri che si cercano fortemente. L’ho detto anche a Chase: “Quando ho scoperto che saresti stata qui a Venezia con le Miu Miu Women’s Tales e con il cortometraggio ‘Moon Lake’, ho pensato: voglio assolutamente conoscerla ed intervistarla”.
Chase Sui Wonders è un’attrice, scrittrice e regista incredibile, che sicuramente avrete visto nel film horror (con una bella dose di comedy) “Bodies Bodies Bodies” e la rivedremo presto in “The Studio”, serie comedy diretta da Evan Goldberg e Seth Rogen, che uscirà su Apple TV.
Con lei abbiamo parlato di salute mentale, dell’importanza del cinema per guarire sé stessi e per, a volte, ritrovarsi un po’. Il cinema per Chase è vita vera, è realtà, ma anche un’arte che più di qualsiasi altra deve riuscire nell’esercizio di parlare in modo specifico, perché solo così può aiutare le persone, può creare immedesimazione ed empatia.
E, a proposito di empatia, è proprio l’osservazione delle persone “ai margini” che incontra nella città in cui vive, New York, ad essere per Chase un’ispirazione per le sue storie, capitoli della sua vita che trascrive su pagina, e riporta sullo schermo e che, proprio per questo, sono degne di essere raccontate e condivise.
Quest’anno hai partecipato alle Miu Miu Women’s Tales alla Mostra del Cinema di Venezia, che trovo sia una piattaforma incredibile per stimolare il dialogo, per creare consapevolezza e dare voce alle persone giuste nel settore. Su cosa ti piacerebbe avviare una conversazione?
Nei film e nel dialogo tra registi e attori, ciò che conta, secondo me, è raccontare storie specifiche. Più sono specifiche, meglio è: se si riesce ad approfondire veramente i personaggi e la storia, in un film ci puoi trovare qualcosa di veramente comprensibile, umano e universale.
Il cortometraggio di mia sorella [“Moon Lake”] e ciò che fanno le Miu Miu Women’s Tales vanno di pari passo, mettendo sotto i riflettori registe e voci femminili, impegnandosi su quel fronte specifico e scovando talenti spesso poco rappresentati e registe che non hanno l’opportunità di realizzare ciò che desiderano troppo spesso.
Questa cosa l’hai detta anche durante il panel: “Più la storia è specifica, più è fonte d’ispirazione per chi ne ha bisogno”. Trovo che sia un concetto molto potente, anche perché il cinema può davvero aiutare le persone a guarire, a volte. Il cinema guarisce anche te?
Assolutamente. Di sicuro recitare e, essendo anche una scrittrice, poter esorcizzare i propri demoni o riflettere su alcuni aspetti della propria vita attraverso un personaggio o la scrittura è una forma di terapia. Ciò non significa che debba sempre essere un tipo di cinema pesante e oscuro – può essere anche commedia o tanti altri generi che riflettono punti di vista diversi. Io personalmente guardo film che mettano in discussione la mia prospettiva, che mi facciano piangere o ridere, o che mi rendano più ottimista sul mondo. Quindi, penso che il cinema sia uno strumento molto utile e, lo ripeto, più è specifico, più è probabile che colpisca e conquisti il cuore degli spettatori.
Ho appena finito di girare una serie comica con Seth Rogen per Apple TV, e sul set ridevamo tutto il giorno, ogni giorno, non ero mai stata su un set così. Sembrava quasi un crimine chiamarlo lavoro, perché ogni giorno era una forma di terapia, e spero che, quando le persone vedranno la serie, si divertano e che costituisca anche per loro un po’ una forma di sollievo dalla vita quotidiana.
Stai parlando di “The Studio”! È stata la tua prima commedia?
In realtà, ho recitato piccole parti in altre commedie, ma sì, questa è stata la mia prima vera commedia, in cui io sono una parte più grande del puzzle. Seth Rogen ed Evan Goldberg, i creatori e showrunner, sono leggende della commedia, icone, e il cast è pieno di maestri del genere, quindi poter lavorare con loro è stato come giocare in un campo nuovo, e nel modo più entusiasmante possibile.
Immagino.
Parlando di moda, invece, penso che sia importante quando si scrive qualcosa, ma anche quando si dirige o si recita, “indossare i vestiti dei personaggi”. La moda ha un ruolo importante anche nella tua vita?
Nella mia vita personale, la apprezzo sicuramente.
Da ragazzina, in realtà, ero un maschiaccio, indossavo sempre felpe da hockey e pantaloni khaki, ma senza dubbio nel mio lavoro la moda è super importante. Per esempio, è sempre il mio punto di partenza per entrare e immergermi in un personaggio: il modo in cui si veste e si presenta dice molto di una persona. Io, nel corso del tempo, ho un po’ sviluppato il mio stile personale e penso sia importante riuscire a sentirsi bene e sicuri di sé con ciò che si indossa e percepire i vestiti come un’estensione della propria personalità e di sé stessi.
Adoro anche interpretare personaggi con uno stile di abbigliamento molto specifico e poi tornare a essere me stessa alla fine della giornata: stacco tra ciò che indossa Chase e quello che indossava il personaggio che stava interpretando prima.
“…penso sia importante riuscire a sentirsi bene e sicuri di sé con ciò che si indossa e percepire i vestiti come un’estensione della propria personalità e di sé stessi”.
Per me, i vestiti sono come un’armatura: se mi sento intimidita o nervosa prima di un appuntamento o di una conversazione che devo affrontare, vestirmi bene in quel momento per me è come mettere uno scudo con cui proteggermi. I vestiti mi aiutano a sentirmi più forte. Forse suona sciocco ma, nella mia carriera, nel corso degli anni in cui ho lavorato nell’editoria, gli abiti “giusti” mi hanno fatta sentire protetta.
Assolutamente! Io sono sempre stata molto timida da bambina, e lo sono ancora in realtà. Ne sono uscita in parte, forse, ma ancora oggi, se devo andare ad un appuntamento o trovarmi in mezzo a un gruppo di persone, sono sempre piuttosto attenta e specifica su ciò che decido di indossare, semplicemente perché voglio sentirmi bene in quel momento. Visivamente, è la prima impressione che fai, come ti vesti, quindi è anche un elemento molto importante per guadagnare fiducia in sé stessi.
Sì, esatto. Stai scrivendo qualcosa in questo periodo?
Sì! Sto lavorando con un paio di diverse case di produzione a vari progetti, e sono molto emozionata. Spero di avere presto qualcosa in cantiere!
Ho iniziato come scrittrice prima ancora di recitare, e ora sto lavorando ad un paio di storie molto personali, e tutte con un lato comico. Non vedo l’ora di regalarle al mondo.
Come trovi l’ispirazione? Hai un metodo, per esempio isolarti quando scrivi?
Vivi a New York, quindi immagino che a volte non sia facile concentrarsi. Ho vissuto a New York anche io per un periodo, e a volte mi sentivo un po’ sopraffatta, anche se la amavo.
Sì, New York è molto caotica, ma questo è uno dei motivi per cui mi piace.
Per quando riguarda la scrittura, forse proprio perché ci sono persone di ogni tipo qui e non è una città dominata da una sola grande industria, il bello è che hai così tante persone diverse da cui trarre ispirazione. Io sono particolarmente affascinata dai personaggi ai margini della società, e a New York ci sono molti “strambi” e coraggiosi, con storie di ogni tipo, quindi mi piace vivere qui, scrivere usandola come base.
Per rispondere alla tua domanda sull’ispirazione, tutto ciò che scrivo nasce da un’esperienza personale, è liberamente ispirato a diversi capitoli della mia vita.
Fino a che punto il cinema è una forma di evasione per te?
Secondo me il cinema è una forma di evasione tanto quanto non lo è, perché a volte sembra così reale e vicino alla vita vera. Ricordo che quando ho visto “Povere creature!”, ho pianto per un’ora nel bel mezzo del film! Tutto ciò che dicevano mi ha colpito profondamente. Non sapevo cosa stesse succedendo dentro di me, ma in quel caso non sembrava affatto un momento di evasione: quell’esperienza di cinema per me era vita, era una full immersion nel mio diario.
Di sicuro il cinema a volte può tirarti fuori da un momento difficile o spingerti ad affrontare la tua realtà: i fantasy e le commedie sono senza dubbio forme di evasione, ma credo fermamente che le cose migliori abbiano sempre qualcosa di reale e radicato nella realtà, e non siano solo un modo per scappare via.
“Per me era vita”
Hai scritto e diretto il cortometraggio “Wake”, che parla anche della sensazione di essere “bloccati” nella vita. Ti sei mai sentita bloccata o intrappolata in qualcosa?
Assolutamente, in continuazione.
“Wake” è stato un progetto davvero speciale, l’abbiamo fatto in un giorno e mezzo e tutti eravamo sempre super impegnati. Io sono cresciuta nei sobborghi di Detroit, che sono una sorta di bolla della periferia americana – lì la vita è molto monotona, e tutti hanno obiettivi, desideri e ambizioni simili. Io vivevo ogni giorno con un costante, forte desiderio di andarmene.
È questa sensazione che mi ha incoraggiata, che mi ha dato molta ambizione.
Quindi, la sensazione di essere bloccata è iniziata durante l’infanzia per me: non ho parlato per i miei primi 10 anni di vita, ero molto timida e non riuscivo a socializzare. In vari momenti della vita, mi sono sentita davvero bloccata: nelle relazioni, nelle amicizie. Penso che sia uno stato umano e naturale di crescita, cambiamento e una conseguenza della naturale “rimozione di strati” che accade col tempo, oltre ad essere un arco narrativo abbastanza naturale, la cui domanda alla base è: “Ti senti bloccato? Come ne esci?”. È la trama di tantissimi grandi film.
Come dicevamo, hai recitato anche nel cortometraggio “Moon Lake”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che parla della crescita e delle cose che si vorrebbero nascondere durante questo processo. Crescendo, c’è stato un aspetto di te stessa che hai fatto fatica ad accettare? Come lo hai affrontato?
Sì, il film di Jeannie è molto personale per me, visto che l’abbiamo girato a casa di mia nonna, c’è mia sorella più piccola nel cast ed è ambientato nei sobborghi del Michigan. Penso che crescere per una ragazza sia un momento di grande confusione, un’esperienza quasi assurda, soprattutto quando il tuo corpo cambia e ti sembra sempre più estraneo.
Per quanto mi riguarda, io sono asiatica, ma la comunità in cui sono cresciuta era molto “bianca”. Essendo stata cresciuta da una mamma single che è bianca, mi sentivo anche io “bianca”, ma mi ci è voluto del tempo per accettare che, in realtà, io non assomigliavo agli altri. Questa sensazione di estraneità mi ha accompagnata per tutta l’infanzia.
In più ero anche molto timida e non mi piaceva questo lato di me, ma allo stesso tempo provavo troppo imbarazzo a parlare con gli altri bambini. Poi amavo il cinema e il teatro, ma il contesto sociale in cui vivevo ogni giorno era molto legato all’importanza dello sport. Anche io amavo fare sport, ma spesso scappavo dagli allenamenti di hockey per andare alle prove di teatro, e le ragazze sportive mi giudicavano per questo, così come i miei compagni di teatro mi giudicavano perché facevo sport… Crescere è davvero un gran casino. I ragazzini sanno essere brutali e non hanno peli sulla lingua, e penso che tutti possano comprendere benissimo quanto spiacevole possa essere sentirsi giudicati.
“Mi ci è voluto del tempo per accettare che, in realtà, io non assomigliavo agli altri”
I cortometraggi possono essere davvero difficile da realizzare anche perché in circa 20 minuti devi cercare di trasmettere tutti i messaggi che vuoi comunicare. Qual è la cosa più difficile per te e quella più soddisfacente nella realizzazione di un cortometraggio?
La parte più difficile è far sì che il pubblico si affezioni ai personaggi, perché, appunto, non hai il lusso del tempo a disposizione.
Devi avere una storia ben chiara con una precisa demarcazione tra inizio, svolgimento e fine, e bisogna far sì che il pubblico si senta coinvolto sin da subito. Questa è la sfida. Realizzare un cortometraggio comunque è meno impegnativo di realizzare un lungometraggio, puoi fare tutto molto rapidamente, infatti. Le riprese di “Moon Lake”, per dire, sono durate solo tre o quattro giorni, quelle di “Wake” un giorno e mezzo addirittura, quindi è fondamentale coinvolgere gli spettatori sin dall’inizio, altrimenti tutta la struttura della storia cade a pezzi. Ma questa è anche la parte più soddisfacente: un corto è una testimonianza di persone che si sono impegnate a fondo in un progetto con poco tempo a disposizione che poi sono tornate alla loro vita. È un’esperienza molto divertente.
Guardando “Wake”, ho desiderato che fosse un lungometraggio. Cercavo di immaginare quello che sarebbe potuto accadere prima, come antefatto, e mi sono creata il film nella testa, praticamente!
Fantastico! Sono davvero felice che tu abbia avuto questa reazione. Parte dell’intento di quel film era proprio quello di raccontare la storia di un gruppo di persone con un passato ricco di eventi. Non ho mai pensato a una versione lunga del corto, ma alla fine è come un contenitore pressurizzato, pieno di storie diverse e di bagagli emotivi. Chissà, magari un giorno ci sarà una versione estesa… sarebbe divertente!
Il mondo del cinema e dell’arte in generale è legato in diversi modi a quello della salute mentale. C’è qualcosa che continui a vedere e che ti infastidisce, o che vorresti cambiare?
Penso che esistano molte versioni di “salute mentale”. Ogni storia è diversa e approcciarsi alla storia di ciascuno lo è altrettanto, perciò c’è spazio per racconti molto variegati. Io ho interpretato personaggi con gravi problemi di salute mentale, e posso dire che è un lavoro importante e difficile, ma è anche ciò che spesso ti connette di più con il pubblico.
Continuo a raccontare storie molto specifiche, ma cerco sempre di essere molto attenta a non glorificare la salute mentale in nessun modo. Ho dei principi fermi su questo tema: non si dovrebbe mai glorificare la malattia mentale. Non deve essere qualcosa di cui vergognarsi, ma nemmeno qualcosa da mettere su un piedistallo. Parliamo di un disturbo di cui qualcuno soffre e per questo dovrebbe essere sempre preso sul serio. Il peggio che possa capitare è che un ragazzino o una ragazzina consideri la malattia mentale come qualcosa di “sexy” perché l’ha vista rappresentata in questo modo in un film o in una serie.
Non ci avevo mai pensato in questi termini, il tuo punto di vista è molto interessante. Ho sempre pensato che fosse importante parlarne e avviare una conversazione a riguardo, ma a volte, soprattutto per le nuove generazioni, vedere sempre più storie incentrate su questi temi potrebbe creare confusione.
Esatto, ma quando un prodotto è autentico, può svolgere un ruolo davvero importante. Finché c’è autenticità, è cruciale.
“Continuo a raccontare storie molto specifiche, ma cerco sempre di essere molto attenta a non glorificare la salute mentale in nessun modo”.
Scrivendo, dirigendo e interpretando personaggi diversi di volta in volta, si finisce per passare molto tempo con sé stessi, esplorando le proprie sfaccettature, mettendosi alla prova e conoscendo sempre più a fondo sé stessi. Qual è l’ultima cosa che hai imparato su te stessa attraverso il tuo lavoro?
Che posso essere camaleontica e trasformarmi in modi che prima ritenevo impossibili.
Ho alcuni progetti in arrivo quest’anno in cui interpreto personaggi davvero diversi tra loro e da qualsiasi cosa che abbia mai fatto prima. In particolare mi riferisco a due lavori che sto facendo uno dopo l’altro e in cui interpreto gli estremi opposti dello spettro della femminilità, due tipi di donne molto diverse. Quindi, penso di aver imparato che posso interpretare molti tipi di personaggi, mentre prima mi consideravo limitata in termini di cosa pensavo di poter interpretare, o dell’industria del cinema, o dei casting director che avevano idee diverse su cosa potessi interpretare e davano per scontato che potessi fare solo quella determinata cosa. Ora ho scoperto che posso interpretare diversi tipi di donne!
C’è un film o una serie TV che hai visto di recente e che ti è rimasta nel cuore?
Ho visto un film chiamato “Nowhere” di Gregg Araki che è davvero fantastico. Lui è uno dei pionieri del cinema queer indipendente e ha una visione del mondo autentica e un umorismo ironico e dark, ma anche delizioso ed esilarante. Questo film mi è rimasto nel cuore, e in più molti attori straordinari e famosi hanno iniziato con i suoi film.
Poi, “La Ciénaga” di Lucrecia Martel è un film che riguardo regolarmente; l’ho rivisto giusto qualche sera fa e lo trovo bellissimo, lo consiglio. È incredibile e i suoi paesaggi sonori sono ricchi e godibili, e adoro che Lucrecia racconti sempre personaggi strani e si concentri sulle loro idiosincrasie.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione finora?
Probabilmente perseguire una carriera nella recitazione e nell’intrattenimento, in generale. Io vengo dai sobborghi, quindi non ero affatto abituata o esposta a questo mondo. Quando ero piccola, ero sicura che avrei lavorato nel settore finanziario, perché era quello che facevano tutti dalle mie parti, ero certa sarei finita a fare un lavoro corporate. Fino alla fine del college, ero convinta sarei diventata una dipendente aziendale, quindi direi che impegnarmi nella recitazione e non rinunciare a questo sogno sia stata una mossa piuttosto punk da parte mia. Non sono una grande ribelle, sono una persona abbastanza tranquilla, direi, se parliamo di fare festa e quel genere di cose per esempio, a me piace tanto stare a casa.
Anche io, ti capisco. A proposito, cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È un processo che non finisce mai, secondo me, e significa anche un po’ crescere.
Ho accusato alcuni grossi colpi nel corso della vita, ma li ho affrontati a muso duro. Riuscire a superare momenti difficili e uscirne con la consapevolezza di essere “tutta intera e più forte di prima”, ti aumenta notevolmente l’autostima. Non penso che sia qualcosa che conquisti da un giorno all’altro, ma il vecchio cliché di come le difficoltà ti rendano più forte è stato davvero formativo per me. Inoltre, essere in grado di fare questo lavoro, fare audizioni per ruoli e ottenerli, e ottenere quella “validazione”, passami il termine, mi ha fatto capire che me la cavo in questo campo, che sono capace, che c’è un posto per me e per la mia stranezza e le mie idiosincrasie da qualche parte in questo mondo e in questo settore.
“…direi che impegnarmi nella recitazione e non rinunciare a questo sogno sia stata una mossa piuttosto punk da parte mia”.
E qual è la tua isola felice?
Con la mia famiglia. La mia famiglia è molto grande e siamo tutti molto uniti.
Si, sono fantastici!
Giusto, li hai incontrati a Venezia! Hai conosciuto mia madre, ha offerto anche a te la pasta?
Sì, certo, tre o quattro volte…
[Ride] Mia madre è una leggenda, mi ha cresciuta molto bene. La mia isola felice è con la mia famiglia: ho cinque fratelli e sorelle, tre nipoti, e la cosa che preferisco è stare tutti insieme. Viaggiamo molto insieme, torniamo spesso a casa in Michigan ed è lì che mi sento davvero felice.
E poi anche sul set. Sul set di un film o di una serie, con persone in gamba: non c’è niente di meglio per me, è davvero un’emozione senza paragoni.
Scrivere per te è un momento felice? Conosco persone che scrivono solo quando “soffrono”…
Io attraverso fasi diverse. A volte per me il momento della scrittura è un momento di irrequietezza, altre volte mi siedo a scrivere e mi alzo dopo 12 ore, quindi la vivo in modo diverso di volta in volta. Scrivere può essere estenuante, ma la metà del del tempo è la cosa più bella che si possa fare, è un momento di euforia, in cui senti che una forza misteriosa ti attraversa, quasi come un esorcismo [ride].
Sì, ti capisco. Anch’io scrivo, per lavoro ovviamente, ma ho anche iniziato a scrivere qualcosa di mio – non so ancora cosa sia, ma ho iniziato perché mi è successa una cosa molto triste, e scrivere mi ha aiutata molto, dato che non sono stata capace di prendermi cura di me nel modo giusto. Prima tendevo a collegare io stessa la scrittura alla sofferenza e a cose tristi; poi, alcuni mesi fa, ho iniziato a scrivere delle cose divertenti, più leggere, e quindi ho pensato: “Ma allora posso scrivere anche cose che non mi facciano piangere!”.
Sì, è incredibile! So che molte persone dicono che devi soffrire per riuscire a creare e che l’arte migliore deriva da chi soffre di più. A volte è vero, suppongo, ma se sei un poeta o qualcosa del genere.
Ciò che preferisco io è il mix di commedia e tragedia, quando ridi e il secondo successivo piangi, quella è la mia arte preferita. Penso che ci sia spazio per entrambe le cose.
“senti che una forza misteriosa ti attraversa”
Nel mondo in cui viviamo, dove tutto sembra muoversi velocemente e a volte non è proprio possibile aspettare, per te l’attesa è una cosa possibile?
La capacità di attendere è una grande lezione che ho imparato nella vita, Io sono una persona impaziente: se ho un’idea, voglio metterla in pratica subito, se mi faccio un nuovo amico, voglio uscirci subito, e posso essere una persona impegnativa da frequentare. L’impazienza non è utile, perché le cose migliori sono quelle che accadono lentamente, nel corso del tempo. Il mio cervello funziona un po’ così, soffro di ADHD, ma le cose più belle che mi sono capitate nella vita sono quelle che non ho forzato e che non ho fatto di fretta. È allora che la magia accade, quando non stai cercando di forzare i tempi o andare troppo veloce. È sempre quando ti lasci andare un po’ che le cose belle arrivano da te. Tuttavia, penso che i social media, oggi, abbiano accorciato notevolmente la nostra soglia di attenzione, motivo per cui quindi cerco di non usare troppo il telefono.
È che spesso apri i social e vedi persone che fanno tante cose e tu ti senti come se non stessi facendo nulla, sia dal punto di vista sociale che professionale. Io, per esempio, sono la Founder del magazine, in cui facciamo noi i nostri servizi fotografici e non accettiamo contenuti visivi da altri, tutto è prodotto da noi, e in più abbiamo una piccola agenzia di produzione; quindi, penso di aver realizzato grandi cose nella mia vita, ma allo stesso tempo continuo a pensare che gli altri abbiano fatto di più mentre io non faccio nulla, quando sono su Instagram, per esempio.
Capisco, ma non puoi viverla così. Voi state facendo un ottimo lavoro e sono convinta che la cosa meno utile in assoluto sia confrontare e paragonare noi stessi ad altre persone.
Soprattutto nel nostro settore, ci sono tantissime persone che hanno i nostri stessi sogni e obiettivi, e il fatto che noi ci siamo dentro è già qualcosa. Io dico sempre a me stessa che sono unica, che ogni essere umano è diverso, e nessuno farà mai le cose come nessun altro; quindi, c’è spazio per tutti e ognuno deve rimanere sul proprio binario.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup by Emma White Turle.
Hair by Stefan Bertin.
Styling by Thomas Carter Phillips.
Location: Palazzo Garzoni.
Thanks to Miu Miu.
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