Esiste un filo invisibile che attraversa l’oceano, collegando le montagne del deserto americano alle coste di Marina di Castagneto Carducci. È il filo di una conversazione che nasce dall’urgenza di dire la verità, anche quando brucia, anche quando disturba l’ordine delle cose. CJ Leede e Carlotta Vagnoli si incontrano in questo spazio di parole dove l’horror letterario di “Estati Americana” dialoga con l’attivismo femminista, creando un tessuto narrativo che esplora le zone d’ombra della vergogna e del peccato che la società impone ai corpi femminili.
Questa è una conversazione sulla bellezza pericolosa e sull’oscurità che non è necessariamente cattiva. È un dialogo tra chi trova la bontà nei cani e chi la trova nella sorellanza, tra chi ha imparato la rabbia scrivendo e chi ha scoperto la clemenza vivendo. È l’incontro tra due voci che, da sponde diverse dell’esperienza umana, cercano di rispondere alla stessa domanda: cosa significa essere libere in un mondo che ci vuole sempre colpevoli di qualcosa?
Tra rituali cattolici e transfemminismo, tra sindrome dell’impostore e rivoluzione dell’imperfezione, si dipana un discorso che tocca le corde più profonde del nostro tempo: come smettere di avere paura di esprimere chi siamo davvero, come costruire una democrazia dell’autenticità in cui nessuno debba più nascondersi. Perché alla fine, quando tutto sembra crollare, forse la fine del mondo può davvero essere un nuovo inizio.

Prima di tutto, CJ, congratulazioni per il tuo nuovo libro, è una delle mie letture preferite di quest’anno finora! Sono curiosa del percorso che ti ha portato a questa storia e al personaggio di Sophie, in particolare. Hai voglia di raccontarcelo?
CJ: Ho iniziato a scrivere questo libro quando non sapevo nemmeno di voler diventare una scrittrice. È stato un puro caso, ma sapevo che se avessi un giorno scritto qualcosa, sarebbe stato un libro sulla cultura della vergogna e del peccato e sui modi in cui mi ha influenzata anche da adulta. Quindi, un racconto horror che parla anche di un’epidemia violenta penso sia l’“estremo” naturale di ciò che diciamo alle giovani ragazze, ovvero che il loro valore più grande è la loro sessualità e il valore sessuale, ma allo stesso tempo, è anche il loro peccato e vergogna più grande, e c’è molta colpa e vergogna intorno a questo.
Mi collego ad “Estasi Americana” per spostarci in Italia e in un passo di “Memoria delle mie puttane allegre”, in cui tu, Carlotta, parli della costante necessità di perfezione richiesta alle persone che fanno parte della bolla del femminismo. Pensando anche al tuo lavoro e al tuo attivismo su più fronti, in che modo la perfezione si può sostituire all’imperfezione, al diritto di non essere quello che ci viene imposto?
C: Beh, è quello che sta alla base di “Estasi Americana”. Cresciamo con un concetto che ci viene imposto, la necessità di essere sempre perfette. Ecco perché il genere femminile ha molte più probabilità di soffrire della sindrome dell’impostore rispetto al genere maschile. Ci sentiamo sempre imperfette. La vera rivoluzione potrebbe essere avere un aspetto di merda, ma è inimmaginabile perché ovviamente saremmo escluse dal mondo del lavoro, dalla società. Le donne sono sotto una lente d’ingrandimento, in questo senso.
Il femminismo non è perfetto. Il femminismo dovrebbe insegnarci a metterci sempre in discussione. Sfortunatamente, ora viviamo in un momento politico in cui ci “tirano per la sottana”, chiedendoci di rispondere a tutto quello che sta accadendo nel mondo con un’interpretazione femminista. Quello che ci chiedono di solito è: “Dove sono le femministe?”. La risposta è: dove siamo sempre state.
L’imperfezione potrebbe finalmente rendere umano un movimento che ha bisogno di essere visto da un punto di vista umano, appunto, e non da un punto di vista meccanico o semi-divino. Parliamo per gli esseri umani in quanto esseri umani.
Abbiamo parlato di senso di colpa, e mi viene in mente il passaggio in cui la mamma di Sophie parla di quello che le è successo e dice che era colpa sua se quelle cose orribili le sono successe. Penso che questo senso di colpa sia sfortunatamente comune tra le donne ed è così ingiusto, ovviamente. Cosa potrebbe aiutare un cambio di prospettiva in questo senso? Perché si tratta di un problema culturale.
CJ: Penso che il primo passo sia abolire il concetto di “vergogna” – una funzione biologica di base – e anche abolire l’idea che siamo responsabili per qualsiasi violenza ricevuta o qualsiasi cattiveria ricevuta, donne o uomini. Penso che queste siano le due cose principali. E probabilmente l’educazione, anche quella potrebbe aiutare.
C: L’educazione è sicuramente un problema in Italia, in cui manca l’educazione al consenso sessuale, l’educazione contro gli stereotipi di genere. Anche cambiare la narrativa sulla violenza potrebbe aiutare: il victim blaming è ancora forse la cosa più praticata nella cultura occidentale e le donne sono ancora considerate colpevoli per le violenze che subiscono.
Il percorso è lungo. Nel libro, per esempio, in “Estasi Americana”, a un certo punto, Sophie incontra un personaggio che esiste in tutte le storie di donne che hanno subito violenza. Quel personaggio è Cleo, che simboleggia l’arrivo del transfemminismo. La storia può essere diversa, possiamo smettere di sentirci in colpa, e questo è quello che la scuola dovrebbe insegnarci. Ora, al momento, è il transfemminismo che ce lo insegna.




Essere donna è legato all’idea di tentazione e poi peccato, se vogliamo vederlo in modo religioso, specialmente. Cosa fai quando le persone ti fanno sentire in colpa per chi sei? Non è sempre facile combattere questo sentimento, specialmente perché apparteniamo a paesi e società cattoliche.
CJ: Liberarsi di quel senso di colpa non è un percorso facile, anzi probabilmente è una lotta che molte persone combattono per tutta la vita. Secondo me anche semplicemente iniziare un dialogo sul tema è un grande passo da fare. Comunque, è un sentimento radicato in noi, anche se la gente probabilmente oggi inizia a riconoscere che questa è in realtà un’emozione abbastanza inutile.
C: Io vengo da una famiglia non cattolica, quindi fondamentalmente il senso di colpa non è costruito dentro di me dall’esterno, ma connesso al mondo esterno. Ho iniziato a sentire il senso di colpa in me stessa, non mi piace, come sentimento, non penso che mi appartenga. Quindi, ogni volta che qualcuno mi dice, “È colpa tua perché ti sei comportata come una puttana”, divento quella puttana, e appena divento quella puttana, mi rendo conto che non c’è niente di sbagliato in me. Quindi, sperimento il peggio, quello che pensano sia il peggio, per rendermi conto che in realtà non è così male.
La libertà arriva in molti modi, e la libertà è anche privilegio. Questa però mi appartiene perché la mia famiglia non viene da un background cattolico fondamentalista, sono sempre stata abbastanza libera di sperimentare la sessualità e molte cose che il mondo può offrire a una donna. Ma penso che sia importante non mostrare all’altro che sei spaventato. Puoi essere un esempio per gli altri, come se niente possa smuovermi, niente possa distruggermi. Dicono che sono una bestia e una puttana e cose simili, ma non mi tange affatto.
CJ: Hai detto, “non mi appartiene”: è un’espressione così bella, è la verità. Lo adoro.
C: Sì, non mi appartiene per niente. Posso fingere a volte, ci provo e fingo, penso, “Immaginiamo questo senso di colpa”. Ma non ci riesco, non mi appartiene. È un privilegio.


“Non mi appartiene”

Sophie dice che la bellezza è pericolosa, che quella delle donne attrae l’oscurità, che è oscurità. Qual è la bellezza dell’oscurità per te?
CJ: Penso che l’idea che l’oscurità sia qualcosa di cattivo è sbagliata, io semplicemente non penso che debba essere così. Penso che ci sia sempre una prospettiva diversa sulle cose, e che possiamo davvero essere chi vogliamo senza sobbarcarci il giudizio di “cattivo” da qualcun altro. Se non stai facendo del male a qualcuno, allora niente di quello che stai facendo è male. Non c’è nessun “male” intrinseco eccetto per la cattiveria gratuita, la violenza e la crudeltà, quindi, qualsiasi altra cosa è solo “vivere”.


E dato che stai parlando del “male”, Ben e Sophie hanno una discussione su cosa è considerato bene e male. Dove trovate di solito la bontà? Come vi ricordate che c’è qualcosa di buono nel mondo?
CJ: Nei cani. In tutti i miei cani vedo la bontà [ride]
C: Dove trovo la bontà? Nella sorellanza, e nella gentilezza gratuita degli sconosciuti.
CJ, Scrivere “Maeve” e “American Rapture” ti ha aiutata a modellare il tuo modo di vedere la religione?
CJ: Penso che se passi abbastanza tempo a guardare qualsiasi cosa, ti innamorerai di essa in qualche misura. Personalmente non amo molto di quello che esiste nella Chiesa Cattolica, ma penso che le parti buone di essa portino a molte persone molto conforto e gioia, e penso che sia bello. Inoltre, sono arrivata a rendermi conto che amo davvero il rituale. I cattolici sono piuttosto gotici. È oscuro, è molto ritualistico, è molto sensoriale. Quindi, tutto quello probabilmente mi ha modellata in molti modi, esteticamente.

“Dove trovo la bontà?”

Carlotta, in “Memoria delle mie puttane allegre” dici: “La capacità di redimersi, di accettare i propri limiti, di creare legami autentici e profondi, di vivere la realtà abbandonando il mondo dell’occulto e del divinatorio diventa essenziale ai fini della sopravvivenza”. una frase che si lega molto anche alle tematiche di Estasi Americana. Riesci a mettere in pratica tutti i giorni questa capacità?
C: No! Spesso mi metto a piangere in posizione fetale. Spesso penso di poter fare meglio. Spesso penso a me stessa come a un robot.
Sono figlia unica ed è dura, perché significa che non sono mai cresciuta con qualcuno con cui confrontarmi o parlare. Quindi, a volte è utile per me parlare con altri amici o famiglie per ricordarmi che sono umana e posso fallire. E ho bisogno di una bella litigata. Ho imparato cos’era una litigata vera a trent’anni, perché litigare è quello che fanno i fratelli, e io l’ho imparato davvero tardi. Ma è quello che faccio quando mi sento più umana.

La capacità di perdonare è legata alla capacità di commettere errori, di sperimentare peccati in modo sicuro per sé stessi e gli altri. Questo libro parla di crescere anche navigando attraverso perdono, perdita, amore, credenza e cambiamento. Qual è l’ultima cosa che avete scoperto entrambe su voi stesse magari anche grazie ai libri che scrivete e leggete?
CJ: Penso di non essermi mai permessa di provare molta rabbia nella vita. Ma con questi due libri che ho scritto, questa volta l’ho fatto. Quindi, penso che qualsiasi parte di noi che pensiamo di non avere, molto probabilmente è lì e vuole uscire, e speriamo che venga fuori in modo produttivo.
C: È l’opposto per me [ride]. Sono stata davvero arrabbiata per molto, molto tempo. E ho capito col tempo che so essere clemente, che sono in grado di perdonare le persone, che è una possibilità, posso farlo.
Cleo chiede a Sophie cosa la spaventa di più e Sophie dà una risposta sia profondamente umana che influenzata dal modo in cui è cresciuta. Cleo poi le ricorda che i momenti in cui i suoi pensieri sono solo suoi, quelli sono i momenti di vera libertà. Cos’è la libertà per te e cosa ti fa sentire libera?
C: Questa è la Domanda con la D maiuscola! [ride]
CJ: È stata l’ultima cosa che ho scritto nel libro, alla fine di tutto, e ho lavorato su questo libro per circa un decennio, quindi mi ci sono voluti 10 anni per riuscire a dirlo. Penso che la libertà per me ora potrebbe essere solo la capacità di scrivere un libro come questo in un tempo in cui la verità si può dire.


Hai anche detto che la fine del mondo potrebbe essere un nuovo inizio. Che speranze avete entrambe per il futuro?
CJ: Così tante.
Ne abbiamo bisogno! Probabilmente non siamo in una situazione globale molto speranzosa, ma è probabilmente proprio per questo il momento in cui ne abbiamo più bisogno.
CJ: Forse è una risposta banale, ma io spero nella compassione sotto tutti i punti di vista e nella capacitò di ascolto. Penso che se riusciamo a trovare un’umanità condivisa, potremmo essere in grado di dimenticare molte delle differenze percepite.
C: Io penso che le persone abbiano paura. Ho capito che la mia vita stava cambiando quando non avevo più paura. Ho visto miglioramenti nelle persone intorno a me molto, quando ho realizzato che non avevano più paura di essere chi sono, di esprimere quello che sentono. Desidero che tutti noi non abbiamo più paura di esprimerci. Oggi è difficile a causa della sovrastruttura politica e cose del genere. In Italia è davvero difficile appartenere a una comunità LGBTQ+ e dirlo ad alta voce o essere anti-fascista o pro-palestinese. Quindi, è piuttosto difficile esprimere chi sei, sai, la polizia probabilmente ti punisce se lo fai. Spero che impareremo dalla storia che la direzione in cui stiamo andando è pessima, non promette niente di buono. Abbiamo bisogno di una democrazia in cui nessuno ha paura di esprimere chi è davvero.


Cosa state leggendo in questo momento?
CJ: C’è un’autrice, Seanan McGuire, che ha scritto tipo 60 libri, per davvero. Ha scritto una saga chiamata “Every Heart a Doorway“, una saga fantasy, mi sembra bellissima, ne ho appena comprato un capitolo in aeroporto.
C: Il nuovo libro di Michael Bible, “Goodbye Hotel“. Trovo che sia davvero un bravo scrittore. Mi ricorda Carver, storie in cui tutto ti spaventa, ma sono pura realtà.
Ultima domanda. Qual è il vostro posto felice?
CJ: Per me, l’aria aperta. Le montagne e il deserto.
C: Il luogo dove sono nata e cresciuta: Marina di Castagneto Carducci.

Photos by Luca Ortolani.
Thanks to Mercurio.
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