Quando Mona Fastvold porta la storia sullo schermo, lo fa con un’intensità rara, creando film tanto visivamente potenti quanto emotivamente profondi. La sua ultima opera, “The Testament of Ann Lee”, non fa eccezione: un dramma storico unico, in cui musica, rito e desiderio umano si fondono in qualcosa di suggestivo e maestoso. Il film ripercorre la storia di Ann Lee, la visionaria e controversa fondatrice degli Shakers – un movimento religioso basato su celibato, vita comunitaria e culto estatico – che sopravvive ancora oggi in un piccolo angolo d’America. È forse una storia poco conosciuta, eppure capace di risuonare con una sorprendente urgenza contemporanea.
Al centro di questo progetto radicale e immersivo c’è Viola Prettejohn, che interpreta Nancy Lee, una giovane donna divisa tra devozione spirituale e l’attrazione di un amore proibito. Nella nostra conversazione, Viola ha irradiato la stessa apertura e chiarezza emotiva che definiscono la sua interpretazione. Insieme abbiamo esplorato l’intensità dell’incarnare i rituali Shaker sullo schermo e come questa esperienza straordinaria abbia cambiato il suo modo di pensare l’arte, la vulnerabilità e persino la sua voce.



Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Da bambina guardavo “Mary Poppins” in continuazione, religiosamente, ed è tuttora uno dei miei film preferiti di sempre. Sai, è ambientato a Londra e io sono cresciuta a Londra, ma è una Londra che in realtà non esiste, e non è mai esistita davvero – è una Londra da favola, e credo che amassi quel film proprio per questo motivo, perché potevo uscire di casa e fingere di trovarmi nella Londra di Mary Poppins. Penso che sia stato l’inizio del mio amore per i musical. E ora, eccomi che ho appena fatto un musical… Folle!



Che bello! A proposito, dopo aver visto “The Testament of Ann Lee”, non riuscivo a smettere di pensarci. Tornata a casa ho passato ore a cercare informazioni sul culto. È così affascinante. La visione radicale di Ann Lee – celibato, vita comunitaria, culto estatico – sembra al tempo stesso aliena e poetica. Come ti sei avvicinata a questo universo durante il lavoro sulla sceneggiatura e la preparazione del tuo personaggio?
Più che concentrarmi sul mio singolo personaggio, ci tenevo ad essere iper-presente come parte del cast corale, perché è stato un processo di realizzazione molto comunitario. Sembrava davvero che l’importanza non fosse nelle scelte individuali del mio personaggio, ma piuttosto nell’assicurarmi di essere il più presente possibile con gli altri.
Credo che tutti fossero molto concentrati nel dare tutto alla danza e al canto, ed è stato un lavoro molto fisico che ha usato i nostri corpi e le nostre voci in modi non “normali”, che la maggior parte di noi non aveva mai provato prima. Questo ha richiesto molta fiducia reciproca perché è un film molto tattile. Dovevi essere vulnerabile con i tuoi compagni di cast, ma allo stesso tempo era fondamentale avere fiducia e sentirsi in uno spazio sicuro per poter produrre quei suoni ed esprimerti in un modo così audace e grandioso. Abbiamo avuto una settimana di prove prima di iniziare le riprese ed è stata vitale per entrare in quel ritmo, sperimentare e imparare davvero a fidarci dei nostri movimenti.
Mi ci è voluto un po’ per avere abbastanza fiducia nel mio corpo da riuscire a spingermi fino al punto che Cecilia [Rowlson-Hall], la nostra coreografa, ci chiedeva, perché non avevo mai fatto nulla di così fisico prima.

“…è stato un lavoro molto fisico che ha usato i nostri corpi e le nostre voci in modi non ‘normali’, che la maggior parte di noi non aveva mai provato prima.”

Già, perché i rituali Shaker – fatti di danze, canti, preghiere brusche – sono davvero unici. Com’è stata la tua esperienza nell’imparare a incarnare quella spiritualità fisica davanti alla macchina da presa?
Onestamente è stato grazie agli altri se mi sono sentita abbastanza sicura e ho imparato a farlo. Sentivo una forte connessione con il nostro gruppo. Mona ha un talento incredibile nel mettere insieme le persone giuste per la cosa giusta, ed è straordinaria nel formare cast di persone che lavorano bene insieme – davvero non avrebbe potuto scegliere meglio per questo film, perché non ci è voluto molto a fidarci gli uni degli altri.
Ma, cosa più importante, tutti credevamo moltissimo nel progetto, ed eravamo tutti entusiasti di esserci e di farne parte. Nessuno di noi tratteneva qualcosa. Volevamo dare a Mona quello che desiderava perché credevamo tantissimo in lei. È una leader forte, e in un certo senso qualunque cosa volesse, eravamo pronti a dargliela, perché se lo meritava per il film. È stata un’impresa monumentale per lei e per tutti noi, e richiedeva una dedizione assoluta, quindi non c’era davvero l’opzione di non esserlo.


Parlando del tuo personaggio, Nancy è una figura complessa perché è divisa tra i desideri personali e le aspettative comunitarie. Come hai affrontato il viaggio emotivo di questo personaggio, in quanto una donna che si ribella silenziosamente all’interno di una società così rigida e severa?
Credo che non mi sia sembrata nemmeno una ribellione. Non so, ero così concentrata sul mondo del nostro film durante le riprese che, arrivati a quel punto, non mi sembrava un tradimento. Ricordo di averne parlato con Mona e lei mi disse che l’amore del mio personaggio per il ragazzo è l’unico esempio, nel film, di un amore romantico davvero bello, puro e sincero. Questi due personaggi si amano davvero, e quindi non mi sembrava né una ribellione né un tradimento o qualcosa del genere.
Nancy era cresciuta esprimendo la sua fede religiosa, il suo amore per Dio in quel modo, e credo che questo le desse la fiducia, quando provava quei sentimenti, di credere che quella fosse la strada che doveva percorrere. È straziante per Ann, ma lei non prova risentimento verso Nancy: vede Nancy vivere quell’amore, quella connessione, e non considera il loro amore come qualcosa di negativo.




Ricordo che mi hai detto che non definiresti questo film un musical, e ora che l’ho visto capisco cosa intendevi. Come lo descriveresti allora?
È un’opera radicale; in molti modi è un progetto artistico multimediale. La musica è ben integrata in ogni parte del film, raramente ci sono momenti di silenzio, e le sequenze di danza sembrano molto organiche. Credo che la sensazione sia quella di guardare un dipinto che prende vita. È un film molto epico, lo definirei un epico radicale.


“Un’opera radicale”


E il canto è davvero particolare, a metà tra l’inquietante e l’incantato, a volte con “suoni animali” generati dal dolore e dalla disperazione. Anche tu canti in alcune scene: come ti sei preparata a unire la recitazione a quei momenti musicali così intensi e rituali?
Abbiamo iniziato dalla musica, siamo andati in studio di registrazione all’inizio delle riprese e il nostro compositore, Daniel Blumberg, ci ha chiesto, mentre eravamo seduti in cerchio, di fare dei “rumori”, e all’inizio tutti l’hanno trovato esilarante. In effetti è piuttosto buffo, è una cosa un po’ ridicola da fare, ma ti apre e ti fa abbattere le barriere, perché lo fanno tutti e tutti sembrano ridicoli. Faceva parte del processo di fiducia, esercitarsi a produrre un suono senza preoccuparsi di come fosse, perché poteva sembrare orribile, bellissimo, spaventoso. Si trattava solo di usare la voce in un modo diverso.
Quando poi ho cantato la canzone sulla barca, quello è stato uno dei pochi momenti in cui sembrava un vero e proprio bel canto, perché è una canzone d’amore, intonata in un momento riflessivo. Tuttavia, scommetto che anche lì il canto abbia ancora un tono un po’ spettrale.
C’è poi una ripresa della stessa canzone nella scena in cui siamo seduti attorno al tavolo a casa dei Cunningham, e ricordo di aver parlato con Daniel di come fosse quasi un incantesimo lanciato sui Cunningham. Quindi sì, la musica assume qualità diverse lungo tutto il film, e ricordo di aver raggiunto uno spazio confortevole in cui potevo registrare, avvicinarmi al microfono, provare un’armonia, e qualunque cosa uscisse era utilizzabile.
Una volta ho sbagliato una nota mentre cantavo e ho fatto una specie di piccolo squittio, e mi sono detta: “Oddio, era stonato!”, ma Daniel ha detto: “Useremo quello squittio, puoi rifarlo apposta?”. Così sono rimasta al microfono per mezz’ora cercando di replicare questo suono acuto che mi era uscito per caso [ride]. È stato come costringerti a fare cose che non avevi mai fatto con la tua voce e con il tuo corpo prima.



E cosa speri che il pubblico porti con sé da questo film, una volta che la musica svanisce e scorrono i titoli di coda?
Beh, in realtà c’è una canzone molto bella anche sui titoli di coda! Penso che sia profondamente commovente, ma anche piuttosto rassicurante, e in qualche modo abbastanza ottimista.
Personalmente, il film mi ha molto sconvolta. Sono quasi sicura che la maggior parte delle persone che lo guarderanno non saprà nulla di Ann Lee, quindi forse anche loro si sentiranno travolti dalla forza di questa donna. È un film molto corale, e ciò che si vede è il potere di un gruppo di persone che decide di realizzare qualcosa e di farne lo scopo della propria vita. Gli Shakers erano una religione comunitaria basata sul servizio reciproco, sulla generosità e sul lavoro collettivo, e credo che questo sia un messaggio molto incoraggiante.

“…ciò che si vede è il potere di un gruppo di persone che decide di realizzare qualcosa e di farne lo scopo della propria vita.”

Recitare, secondo me, spesso ti mette davanti ad aspetti inesplorati dell’essere umano e, di conseguenza, ti aiuta a capire meglio te stessa. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te attraverso il tuo lavoro?
Tantissime.
L’esperienza di girare questo film mi ha completamente cambiato la vita. Essere circondata da grandi artisti, veri geni creativi, e lavorare così da vicino con loro ti fa davvero alzare il livello: mi ha fatto pensare, “Devo davvero dare il meglio di me” durante le riprese, ma anche dopo ho pensato: “Devo esplorare tutti questi altri interessi artistici che ho e che non ho mai coltivato davvero”.
Ho sempre disegnato molto, ma dopo quel film ho sentito che dovevo concentrarmi sul disegno. Così ho iniziato a fare tanti disegni dal vero, ho iniziato a scrivere, e questo mi ha fatto pensare che dovrei passare molto più tempo a essere creativa, perché è una cosa che vale davvero la pena coltivare.


La mia ultima domanda è: cosa significa sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Ci sto ancora lavorando.
Ancora una volta, questo film mi ha davvero aiutata, “costringendomi” ad abbattere le mie barriere, cosa che poi ho fatto anche nella mia vita personale. Ho imparato a esprimere di più le mie opinioni ad alta voce e a non avere paura di essere un po’ strana. Ho sempre pensato: “E se la gente mi considera una stramba? Finirà il mondo!”, ma ora credo che la maggior parte delle persone, se mostri il tuo lato più bizzarro, in realtà sarà più interessata a te.
Per sentirti a tuo agio, devi solo abbattere quelle barriere, essere strana quanto vuoi e rimanere aperta agli altri.

Photos by Johnny Carrano.
Styling by Sarah Rose Harrison.
Location: Hotel San Cassiano Cà Favretto.
Total Look: Miu Miu.
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