Alla Mostra del Cinema di Venezia quest’anno, “Dead Man’s Wire” ha trascinato il pubblico in una delle storie di cronaca nera più inquietanti e avvincenti portate sullo schermo. Diretto da Gus Van Sant, il film cattura sia la follia dell’evento che le ambiguità morali di coloro che ne furono testimoni. Nel film, Myha’la interpreta Linda Page, una giornalista determinata che naviga la tensione tra dovere professionale e coscienza personale.
Myha’la gravita verso storie che sfidano le convenzioni e accendono il dibattito: dopo la realtà carica di tensione di “Dead Man’s Wire”, affronta anche un ruolo interessante in “Swiped”, il film ispirato alla storia vera della fondatrice di Tinder e Bumble, dimostrando ulteriormente la sua capacità di muoversi con disinvoltura tra mondi che interrogano identità, verità e rappresentazione.
Ho fatto una chiacchierata bellissima con Myha’la, parlando di giornalismo, nuovi mondi e posti sicuri. Ho conosciuto un’attrice e una donna coraggiosa, curiosa e costantemente alla ricerca di storie che arricchiscano il suo mestiere e la sua anima.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il primo che mi viene in mente è quando io e mia madre andammo al cinema del mio quartiere – e sono abbastanza fortunata e grande da ricordare ancora l’esperienza di dire “Andiamo al cinema”, e tu semplicemente ti presenti e guardi cosa danno. Ricordo che guardavamo sul giornale locale per farci un’idea di cosa guardare. Ma tornando ai miei ricordi, una delle mie esperienze cinematografiche preferite è quando andammo al cinema a vedere “Blades of Glory – Due pattini per la gloria” con Will Ferrell. Io e mia madre ridevamo così tanto che decidemmo di restare e guardarlo di nuovo alla proiezione successiva. E credo fosse anche in settimana scolastica, ma restammo comunque al cinema fino a tardi.
Secondo me un buon film dovrebbero fare questo effetto: eravamo così prese che non volevamo andarcene.


Beh, un film che ha avuto esattamente quell’effetto su di me è “Dead Man’s Wire”. L’ho visto quando è stato presentato in anteprima a Venezia, e l’ho adorato. Uno dei miei preferiti di questo festival. Qual è stata la tua reazione quando hai letto la sceneggiatura per la prima volta? C’è stato un momento nella storia che ti ha fatto dire “sì, devo partecipare assolutamente”?
Prima di tutto, sono così felice che il film ti sia piaciuto. Il momento della storia che probabilmente mi ha fatto venire così tanta voglia di unirmi al progetto è stato nelle prime due pagine della sceneggiatura, quando il protagonista punta il fucile all’ostaggio e gli avvolge il filo intorno al collo. Inoltre, quando ho capito che era una storia vera: sono rimasta un po’ sorpresa di non averne mai sentito parlare soprattutto perché sono un’appassionata di true crime, sono ossessionata dai fatti di cronaca. E questa storia è folle – l’idea che un uomo possa minacciare di morte un altro uomo per strada con un filo intorno al collo. E poi nel clou, un gruppo di poliziotti li segue, camminando accanto a loro perché non possono davvero fare nulla, e poi il criminale requisisce un’auto della polizia… sembrava tutto troppo assurdo. Quindi, ero entusiasta della storia a prescindere, e sinceramente, probabilmente avrei detto di sì comunque, qualunque cosa fosse, perché è Gus Van Sant.


Interpreti Linda Page, una giornalista molto determinata. Come ti sei preparata per questo ruolo, specialmente nel bilanciare le implicazioni etiche del giornalismo durante una crisi?
Innanzitutto, mi sono confrontata con Gus per capire chi fosse questo personaggio. È una giornalista degli anni ’70, una figura fittizia inserita in una storia vera – anche perché credo che all’epoca ci fosse solo una giornalista nera in televisione, e non assomigliava affatto alla nostra Linda. Gus mi disse: “Penso ad Angela Davis di quel periodo, esteticamente era davvero interessante”, e ho pensato fosse fantastico, quindi abbiamo seguito quella direzione.
La visione di Gus era: raccontiamo una storia vera ma stiamo anche facendo un film. Quindi ha aggiunto il suo tocco personale agli eventi reali mostrati, per esempio, nel documentario su questo caso. Nel documentario Tony Kiritsis indossa una maglietta verde piuttosto iconica, ma nel film Bill [Skarsgård] non la indossa perché Gus diceva: “Lo voglio con una stampa hawaiana“. Quello che apprezzo di Gus è che è sempre pronto ad aggiungere un po’ di creatività.
Tornando a Linda, visto che non c’era una giornalista nera in quella situazione, penso che Gus volesse semplicemente darci la libertà di essere creativi con il personaggio, infondendogli anche più sostanza nella storia. È la prima ad arrivare sulla scena del crimine e ottenere una copertura in diretta, quindi sta anche usando questa occasione per dare slancio alla propria carriera – è lei quella con le informazioni esclusive. Quindi non sta pensando molto alle implicazioni etiche del reportage in quel momento, proprio perché è tutto troppo scioccante e troppo eccitante. Per lei si tratta solo di essere lì, essere presente, catturare il momento. Penso che la sfida più grande sia stata dare vita alla sensazione di attesa, violenza potenziale e completo shock.

“Quello che apprezzo di Gus è che è sempre pronto ad aggiungere un po’ di creatività.”

In questa storia i media giocano un ruolo importante, sia come osservatori che come partecipanti. Come pensi che il film rifletta la responsabilità (e il pericolo) di fare cronaca sotto pressione o in circostanze delicate?
Ottima domanda. La mia difficoltà nel trovare una risposta è un buon motivo per cui non sarei mai una giornalista [ride]. Sai quando dicono che nella natura dovresti lasciare tutto esattamente come l’hai trovato? Io cerco sempre di salvare un’ape, cerco sempre di intervenire per proteggere la vita perché è quello che il mio cuore mi spinge a fare, anche se non è quello che si dovrebbe fare. Quindi non lo so. E non credo necessariamente che il film cerchi di dare una risposta. Penso che la bellezza di un grande film sia mostrare qualcosa che sta accadendo e poi permettere al pubblico di rispondere. Ci dà l’opportunità di avere questa conversazione.
Probabilmente il miglior giornalismo è onesto, imparziale e rispettoso, ma anche mentre lo dico penso: “Sì, ci sono alcune cose che moralmente dovresti semplicemente riportare con assoluta verità”. Questa è la domanda, giusto? Abbiamo la fortuna di poter avere questo tipo di conversazione.



Dopo le riprese, la tua prospettiva sul giornalismo o sulla cronaca delle crisi è cambiata? Hai imparato qualcosa di nuovo che porterai con te nel tuo lavoro?
Quello che risalta di più è che noi, come consumatori, non realizziamo che quei giornalisti, quei cameraman, i tecnici del suono, sono anche loro dentro la situazione di crisi, letteralmente lì dentro. E si stanno anche mettendo in pericolo, a rischio.
Ci sono due scene in cui l’ho davvero capito: quando arriviamo per la prima volta sulla scena e Tony è fuori, sta per prendere l’auto della polizia, scivola e noi tutti pensiamo: “Oh, siamo così vicini”, e lui ha quella pistola e pensiamo: “Anche se non vengo colpita, devo comunque assistere a qualsiasi cosa potrebbe accadere“, il che è traumatizzante. Riconoscere di essere in pericolo imminente è una cosa davvero spaventosa. E poi di nuovo, nella conferenza alla fine, quando Tony è completamente fuori di testa e sta cercando di fare delle dichiarazioni, ma ha anche la pistola puntata dritta verso di me, verso il punto in cui ero posizionata nella scena. Ovviamente Dacre [Montgomery] era tra noi, ma ero molto consapevole della sua instabilità e tenevo il microfono, ma capivo anche: “Non posso andare da nessuna parte, sono intrappolata in questa stanza”. Penso che i giornalisti dovrebbero essere protetti a tutti i costi perché stanno facendo il loro lavoro, un lavoro sacrosanto.

“Penso che i giornalisti dovrebbero essere protetti a tutti i costi perché stanno facendo il loro lavoro, un lavoro sacrosanto.”

E dopo questo progetto, hai scoperto qualcosa di nuovo su te stessa?
Quello che mi affascina e coinvolge in questo lavoro, oltre al fatto che è divertente, è che sono sempre alla ricerca di una qualche verità, sempre alla ricerca dell’umanità. In questo film Bill interpreta un uomo che alcune persone considerano violento e ingiustificabile, ma la bellezza della sua performance è che lui umanizza Tony in un modo che ci rende empatici nei suoi confronti. Tu riesci a capire perché si senta così – soprattutto dopo il caso Luigi [Mangione], siamo tutti tipo: “Potere al popolo!”. Quello che rende brillante una performance come quella di Bill è trovare un modo per umanizzare il personaggio: devi creare una connessione, lui è il protagonista del film, altrimenti nessuno vorrà guardarlo! Anche con il mio personaggio c’è una battaglia interna in cui lei pensa: “Provo simpatia per lui? Sono d’accordo con lui? Come mi sento riguardo a tutto questo?”. E questo influenza il modo in cui rispondi. Nell’ultima scena, Bill ha deciso che il suo personaggio conosceva il nome della giornalista, perché la stampa l’ha reso famoso dopotutto, e la sua storia ha reso famosa lei in un certo senso, ha costruito la sua carriera, quindi Linda e lui avevano una “relazione” di qualche tipo.
Tutto questo per dire che ciò che mi riporta sempre a questo lavoro è la costante ricerca dell’umanità e della verità, e penso che questo ti “ammorbidisca” – se riesci a trovare un modo per capire una persona, almeno, allora puoi provare empatia, metterti nei suoi panni, e ti addolcisce. Penso che il mondo abbia bisogno di questo.



Parlando di “Swiped”, in questo film sulla vita della fondatrice di Tinder e Bumble, interpreti Tisha, una donna brillante e arguta lavoratrice nel mondo della tecnologia. Cosa ti ha attratta di questo ruolo?
La chiamata per questo film è stata la prima che ho ricevuto dopo il Covid e lo sciopero degli attori, quindi più di ogni altra cosa ero davvero grata che qualcuno volesse darmi un lavoro e che sarei tornata su un set. E ancora una volta, era una storia di cui non avevo mai sentito parlare.
Sì, è così strano che quasi nessuno conosca la storia della founder delle app di incontri più popolari al mondo, e che probabilmente è tra le persone più influenti del momento.
Esattamente! Forse questo ha più a che fare con il fatto che non le è permesso parlare del suo lavoro e, naturalmente, lo stesso vale per le persone che lavorano con lei. Ero davvero entusiasta di scoprire come Whitney Wolfe fosse coinvolta in Tinder e come sia arrivata a creare Bumble. Ancora una volta, il mio personaggio è fittizio e rappresenta un’immaginazione di chi potrebbe esserle stato accanto, ma ho anche apprezzato che il regista volesse inserire una donna nera nella storia. Penso sia importante dare centralità a quella voce in quel periodo perché non so se ce ne fossero molte all’epoca.


Quali conversazioni speravi di stimolare portando in vita questa storia?
Penso sia importante sapere che una donna era dietro le app più famose e probabilmente più potenti nel mondo degli incontri. Se il pubblico ne parla, allora penso che il nostro obiettivo sia stato raggiunto.

Hai partecipato ad un panel delle Miu Miu Women’s Tales durante la Mostra del Cinema di Venezia quest’anno, dove creatività femminile, moda e narrazione si intersecano. Cosa significa per te partecipare a un progetto come questo, specialmente come persona che lavora tra cinema, identità e rappresentazione?
È così difficile realizzare un film, innanzitutto. È costoso, nessuno vuole fidarsi di te, e le donne hanno difficoltà ancora maggiori. Quindi sono grata di essere stata invitata in uno spazio dove un grande brand influente con opportunità, accesso e denaro vuole dare questo tipo di supporto alle registe donne. Perché avere un film realizzato su quella scala, con quella piattaforma, con il potere e il prestigio che Miu Miu ha, è enorme. Questo è il tipo di supporto che tutti vorremmo avere e vorremmo dare. Quindi sono davvero onorata di poter sostenere questo progetto e dire: “Anch’io apprezzo e sostengo questo impegno”, di dare un supporto concreto alle registe donne perché è ancora così necessario.

“Sono davvero onorata di poter sostenere questo progetto e dire, ‘Anch’io apprezzo e sostengo questo impegno’, di dare un supporto concreto alle registe donne perché è ancora così necessario”.

Dal momento che il progetto coinvolge la moda come parte della narrazione, come vedi i costumi, lo styling e l’identità visiva dei personaggi influenzare il modo in cui il pubblico comprende ruoli e narrazioni?
È fondamentale. Puoi entrare nella mente di un personaggio, ma tutto cambia una volta che indossi un costume, una volta che metti una parrucca. I costumi cambiano il modo in cui il tuo corpo si muove nello spazio – tutta la dimensione estetica è molto importante dal mio punto di vista, e anche per il pubblico, ovviamente.



Qual è la cosa che ti fa ridere di più?
Non so esattamente cosa sia, ma penso sia la “stupidaggine”, tipo quando il mio partner, mia madre e io iniziamo a ridere, ed è quel tipo di risata che ti fa tossire dopo, senti i fluidi che si muovono nei polmoni, capisci? È il “cringe”, è essere capaci di ridere di noi stessi. Io rido moltissimo di me stessa continuamente, e penso sia molto salutare.


Quando ti senti più al sicuro e quando ti senti più sicura di te?
Mi sento più al sicuro quando sono con la mia famiglia, sicuramente, quando sono con il mio partner e mia madre, di solito a casa, nel mio appartamento. Mi impegno a fare del mio spazio un santuario, qualunque cosa questo significhi per me, con mobili che ispirano bellezza – amo le cose belle, eleganti e confortevoli.
Mi sento più sicura di me quando sono pulita, dopo la doccia, quando faccio la mia skincare routine, mi metto la crema e il pigiama. Mi sento sicura perché so di avere l’aspetto migliore, più fresco che possa avere, e so di essere pronta per un momento di relax e riposo.


Il libro sul tuo comodino in questo momento?
“Astrology of the Soul” – non lo sto leggendo proprio in questo momento, ma è sempre sul tavolino, lo sfoglio di tanto in tanto.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Per quanto possa sembrare banale, dirò essere me stessa. Penso sia davvero uno dei più grandi atti di ribellione, proprio perché come società, e a livello umano, vogliamo tutti essere apprezzati, il che significa desiderare di essere come gli altri. Sono stata molto fortunata perché l’ambiente in cui sono cresciuta era molto del tipo: “Fai quello che vuoi fare, sii chi vuoi essere”, quindi il mio più grande atto di ribellione è stato semplicemente ESSERE.

“Il mio più grande atto di ribellione è stato semplicemente ESSERE“.

Qual è la tua paura più grande?
Non ho paura di molto. Sento che vivere nella paura sia uno spreco di energia. Ma se devo essere davvero onesta, la mia paura è probabilmente il potenziale non espresso. Sono piuttosto ossessionata dall’essere la migliore versione di me stessa mangiando bene, facendo esercizio, assicurandomi di vedere la luce del giorno come prima cosa al mattino, essere la figlia migliore possibile, la partner migliore, la mamma di gatti migliore, l’intervistata migliore possibile. Una delle cose più belle di me, ma anche una delle mie più grandi debolezze, è che sono perfezionista. Io sto cercando costantemente di raggiungere nuove vette.


Cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Significa non preoccuparsi di quello che chiunque altro pensa di me, che penso sia un lavoro a tempo pieno – non preoccuparsi di quello che le altre persone pensano o dicono, soprattutto come persona pubblica, ma anche se hai semplicemente profili sui social media. Indosso panni sempre diversi per lavoro, interpreto altre persone, il che mi porta a ricevere critiche per quello che i miei personaggi fanno, per i loro errori. Quindi essere a proprio agio nella propria pelle significa non curarsene, non lasciare che questo influenzi il modo in cui vivi la tua vita.
Cos’è casa per te?
La mia famiglia, ovunque si trovi.
Qual è la tua isola felice?
Ancora, la mia famiglia, ma più nello specifico, il mio appartamento, i miei gatti e tutte le mie cose – mi piacciono davvero le mie cose. Il mio appartamento è il mio posto preferito.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup by Bea Sweet.
Styling by Miu Miu.
Location: Baglioni Hotel Luna.
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