Eleonora Duse non è solo un nome nel libro di storia del teatro: è un vortice di emozioni, un enigma, un modello di libertà artistica che attraversa i secoli. In “Duse” di Pietro Marcello, Gaja Masciale si immerge con coraggio e sensibilità in questo universo complesso, trasformando ogni gesto e ogni parola in un ponte tra il mito e la modernità. Nella nostra chiacchierata, l’attrice racconta come ci si avvicina a un’icona senza soccombere alla sua grandezza, come il passato possa dialogare con il presente e perché, anche oggi, la Divina ha il potere di sorprendere e commuovere chi la incontra.

Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il primo ricordo al cinema appartiene a quei pomeriggi domenicali passati con mia mamma per sfuggire alle piogge invernali, appartiene a quei film d’animazione che hanno segnato la mia infanzia, come “Spirit – Cavallo Selvaggio” o “Alla ricerca di Nemo”, film che in sala mi hanno talmente rapita che poi ho costretto i miei a comprarne i dvd, per vederli quotidianamente a casa. Erano diventati un’ossessione per me, sapevo tutte le battute a memoria. Mi ricordo di film d’animazione che mi ammaliavano talmente tanto che poi quando tornavo a casa nella mia stanzetta provavo a ricreare vere e proprie scene del set. Mi divertiva fare tutti i personaggi, amavo immaginarmi in quei luoghi che avevo appena visto in sala, mi astraevo talmente tanto che un giorno ho pensato di agire mosse di karatè nei pressi di una finestra, rotta subito dopo da un mio calcio. I miei hanno avuto molta pazienza.


In “Duse” interpreti Cecilia Rinaldi: come si inserisce questo personaggio nella vita di Eleonora Duse?
Cecilia Rinaldi è la prima attrice di compagnia, ruolo che solitamente nutre di una grande responsabilitàà. Ovviamente da grandi responsabilità derivano grandi crisi! Nel film vediamo Cecilia in un momento delicato del processo artistico, è bloccata con una battuta, non riesce a procedere con le prove, la Duse subentra dandole il più grande insegnamento di sempre.
La prende per mano e violentemente la porta in una zona inconscia dell’animo umano, la parte più viscerale a cui possiamo attingere per dare voce ai sentimenti che poi caratterizzano i ruoli che si interpretano.


Come ti sei avvicinata a un ruolo ambientato in un periodo così ricco di contrasti, tra la Grande Guerra e l’ascesa del fascismo?
È stato per me motivo d’indagine profonda interrogarmi sul ruolo dell’artista in quegli anni. Che poi credo abbiano qualcosa in comune con il nostro di tempo invece. Viviamo in un’epoca dove sembra che tutto si stia distruggendo attorno a noi, è difficile credere ancora in qualcosa, in un futuro per esempio. E ho provato a partire da questo sentimento che nutro dentro di me, come se l’arte fosse la salvezza, la via d’uscita. Come si pone l’artista difronte a un pubblico che ti guarda disilluso? Che responsabilità ha? Cosa pensi che cerchi il pubblico in te? Che testi è meglio rappresentare? Quali storie? Sicuramente mi sono posta moltissime domande e cui non ho cercato di dare una risposta immediata. Ho permesso che tutti questi interrogativi fossero il motore da cui partire.

“Viviamo in un’epoca dove sembra che tutto si stia distruggendo attorno a noi, è difficile credere ancora in qualcosa, in un futuro per esempio.”

C’è stato un aspetto particolare della personalità di Cecilia che ti ha affascinata o con cui ti sei identificata?
Di Cecilia mi ha rapito il suo coraggio, la sua vulnerabilità ma anche il suo essere così disposta a tutto. È una specie di devozione la sua, in questo mi ci identifico molto. Scegliere di essere un’attrice ai primi del Novecento era una scelta audace, molto più di adesso. Spesso erano donne che appartenevano ad un ceto sociale più basso, disposte a vagabondare da un albergo all’altro perché probabilmente non avevano alternative, di piazza in piazza pur di inseguire una strada molto scivolosa. E questo ti portava a non avere nulla da perdere, elemento che ti dona massima libertà anche nell’interpretare i ruoli.
Nasce una sorta di interdipendenza, dalla necessità che hai di fuggire da te e dal riparo che trovi nelle storie da raccontare.


Il regista, Pietro Marcello, ha un approccio molto personale e poetico al cinema: com’è stato essere diretta da lui?
È un privilegio enorme essere diretta da un grande artista come Pietro Marcello. Hai la sensazione da subito che farai parte di una grande operazione, ci si sente onorati a poter contribuire anche in minima parte alla realizzazione di un’opera così prestigiosa. Ho amato l’attenzione che ha dedicato ad ogni scena, è un mix di genialità, follia (quella bella) e poesia. Riserva per ogni attore con cui lavora un grande rispetto, una grande cura e un amore smisurato che ti permettono di lavorare nelle migliori condizioni possibili, ti fa sentire al sicuro.


Lavorando con il resto del cast, avete avuto momenti di preparazione collettiva, prove, o il lavoro è stato più intimo e individuale?
Entrambi, è stato un viaggio dall’interno verso l’esterno fortunatamente. C’è stata una prima parte in cui nel mio intimo esploravo strade che mi sarebbe piaciuto percorrere sul set, ho nutrito in modo quasi bulimico la mia fantasia e la mia immaginazione, addirittura immaginavo scene che non erano previste nella sceneggiatura, momenti privati di Cecilia, lettere intime che avrebbe voluto scrivere alla Duse.
Quando poi c’è stato l’incontro con i miei colleghi ho sentito immediatamente l’affinità, si e creata un’atmosfera molto simile ad una vera compagnia di giro, improvvisando abbiamo allenato il nostro ascolto scenico, eravamo pronti a tutto poi nel momento in cui si girava. È stato come se ci conoscessimo da sempre.

“Un viaggio dall’interno verso l’esterno”
Eleonora Duse è un mito che ha segnato la storia del teatro. Che effetto ti ha fatto entrare in un progetto che la celebra?
È stata davvero la coronazione di un sogno per me, mi sono diplomata in un’accademia dove il teatro in cui facevamo i nostri spettacoli era dedicato a Eleonora Duse.
Mi hanno sempre ispirata la sua storia e i suoi ideali ed entrare in un progetto che la celebra è stato come permettermi di incontrarla davvero. Grazie al lavoro magistrale che ha fatto Valeria Bruni Tedeschi è stato come se il tempo reale si sospendesse e tutti vivessimo una sorta d’illusione collettiva.
Ti sei confrontata con materiali d’epoca, lettere, o racconti per capire meglio l’atmosfera e il contesto in cui vivevano i personaggi?
Quando affronto un lavoro nuovo cerco sempre di contestualizzarlo rispetto all’epoca in cui è stata scritta, cerco informazioni rispetto all’autore, inseguo tracce che mi permettono di creare un immaginario a me caro a cui poter attingere nel corso del processo di creazione. Con “Duse” per me è stato una vera ossessione cercare quanto più materiale possibile. Sono partita da film che raccontano la vita di compagnia come ad esempio “Il Viaggio di Capitan Fracassa” di Scola, per poi arrivare a scovare la mia Bibbia personale: Miriella Schino ha pubblicato di recente un libro su Eleonora Duse. Una raccolta infinita di lettere, immagini e testimonianze che mi hanno aiutata a creare un bacino d’ispirazione, fonte preziosissima per la mia ricerca.



C’è un momento del film che ti ha particolarmente toccata a livello personale?
Difficile sceglierne uno, è un film che mi ha parlato in ogni frammento. Un momento che mi ha commosso molto nel film è verso la fine, quando vediamo una Duse lontana dalle scene, in una dimensione familiare, quando racconta una storia ai suoi nipotini. E durante il racconto lei viene rapita talmente tanto da quello che sta leggendo che cade nella tentazione di interpretare i ruoli che racconta. È istintivo per lei, quasi come se non sapesse fare diversamente, è più forte di lei. Una forza che non può combattere. Questo la porterà a rimettersi in viaggio e a obbedire solo alla sua vocazione. Ci sono vocazioni che non puoi governare, su cui non hai controllo. Sapersi abbandonare è l’unica azione che puoi fare.
Questo film ha cambiato in qualche modo il tuo modo di vedere il mestiere dell’attrice o il rapporto con il teatro?
Per me c’è un prima e un dopo questo film nella mia vita, mi ha cambiata come interprete, come artista. Mi ha dato delle conferme rispetto a quello che ho sempre cercato nel mio mestiere, mi ha rinnovato ideali che erano alla base del mio pensiero artistico. È stato trovare una casa per i miei sogni più grandi. Forse troppo romantica, ma è la verità.

“Ci sono vocazioni che non puoi governare, su cui non hai controllo. Sapersi abbandonare è l’unica azione che puoi fare.”

L’ultimo film o l’ultima serie tv che hai visto e che ti ha particolarmente colpito?
“La montagna sacra” di Jodorowsky, un trip assurdo.
In cosa ti senti più vulnerabile e come trasformi quella vulnerabilità in forza?
La mia sensibilità, spesso mi porta a essere molto più esposta. Ma allo stesso tempo mi permette di arrivare molto prima alla rivelazione delle cose, saper scavare a fondo e non scappare ma decidere di vivere a pieno, senza paura, mi fa sentire terribilmente coraggiosa.
Cosa ti fa sentire al sicuro e cosa ti fa sentire sicura di te?
Essere con persone che sento affini a me, per emotività e sensibilità. Quando sento di potermi esprimere serenamente, di non dovermi preoccupare di essere giudicata.


Sei un animale notturno o una mattiniera? Qual è il tuo momento preferito della giornata?
Decisamente un animale mattiniero! Amo svegliarmi presto, quando ancora tutti dormono e io posso prendermi il mio tempo, nel silenzio per godermi l’inizio della giornata.
Momento preferito in assoluto, prendo un libro, ovviamente ogni giorno uno diverso a causa del mio essere incostante, e mi godo il caffè. Mi aiuta a non cadere nel vortice degli impegni e dei pensieri parassiti di prima mattina, così affronto la giornata essendo decisamente più radicata. Se poi rispondo alla pigrizia con della meditazione o dell’esercizio fisico ho vinto e ne godo dei vantaggi durante la giornata.


Il tuo più grande atto di ribellione?
Andarsene dai luoghi o persone quando senti che non fanno più per te.
Qual è, invece, la tua più grande paura?
Essere fuori tempo massimo. Ho il terrore di non sfruttare al massimo il mio tempo migliore, di non investire negli incontri giusti del mio percorso, di ritrovarmi un domani e domandarmi: ma cosa ho fatto? Perché non ho avuto più coraggio? Come ho fatto a perdere quell’occasione? È come se vivessi una specie di “cronofobia del non detto”. Ho paura che il tempo passi e io non faccia in tempo a dire la mia.

“cronofobia del non detto”

Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È un grandissimo esercizio che cerco di praticare con costanza. Non sempre ci riesco, sono molto critica nei miei confronti, sai quando hai la costante sensazione di dire qualcosa di sbagliato? O di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato? Ecco sentirsi a proprio agio nella propria pelle credo abbia a che fare con parole di cura nei propri riguardi, quando riesci a parlare a te stessa come se parlassi alla tua migliore amica e riesci anche a riconoscerti dei meriti ogni tanto!

Qual è la tua isola felice?
Quei rapporti in cui lascio andare ogni muro e mi abbandono totalmente all’amore.

Photos by Luca Ortolani.
Styling: EP Suite19 PR
Hair by Michele Di Bisceglie.
Make up by Alessandro Joubert per Simone Belli Agency using Armani Beauty.
Thanks to Lorella Di Carlo.
LOOK 1
Total Look: Sportmax
Sunglasses: L.G.R.
Shoes: Gianvito Rossi
LOOK 2
Total Look: Emporio Armani
Shoes: Tod’s
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