C’è un momento, nel film “Riff Raff”, in cui Marina si ritrova in una casa piena di ricordi che non le appartengono, ma che sceglie di abitare comunque. Marina si muove in quella soglia tra il non appartenere, il volersi fidare e lasciarsi andare all’amore, mentre Emanuela Postacchini, proprio per Marina, come per altri personaggi, abbandona sé stessa, “pur rimanendo sé stessa”.
Durante la nostra chiacchierata, Emanuela mi ha raccontato dei suoi primi passi tra danza e teatro, del primo set che le ha cambiato la vita, di cosa significa sentirsi parte di una “famiglia cinematografica” accanto a leggende come Bill Murray e Jennifer Coolidge, e del modo in cui Marina di “Riff Raff”, con la sua forza e genuinità, ha assunto per la sua vita un valore simbolico. Una storia di appartenenza, di ribellioni e di scelte, ma soprattutto di come si può essere luce, anche nel cuore di una storia disfunzionale.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema? Quando ti sei resa conto che ti sei innamorata di questo mondo?
In realtà, tutto è partito dal teatro, quando ero adolescente, se non addirittura prima. Facevo parte di una scuola di danza locale con cui andavamo nei teatri marchigiani a fare le prove per il saggio di fine anno. Durante una prova di saggio di fine anno ho avuto l’occasione di vedere degli attori sul palco di un teatro bellissimo e da lì ho iniziato ad interessarmi a quel mondo. Ero molto affascinata dalla recitazione, pur non sapendo che cosa fosse.
Ricordo che sono sempre stata una grande amante di film, al punto che anche da piccolina spesso alcuni li registravo e il rivedevo tantissime volte! [ride]. Ad un certo punto ho capito che ne volevo sapere di più, ma la passione per il cinema poi è venuta da sé, essendo sempre stata vicina al teatro tramite la danza.
Ho iniziato a recitare in teatri locali, poi mi sono trasferita a Milano, ho continuato a studiare lì in un piccolo teatro, dopodiché sono andata a Roma, dove ho iniziato a fare i provini per cinema e televisione. A quei tempi ho avuto la fortuna che uno dei più importanti agenti cinematografici di Roma dell’epoca mi ha notata durante una pubblicità, uno spot con Raúl Bova. Era proprio il suo agente e mi chiese di andare a Roma a fare dei provini, mi disse: “Hai un bel viso, sembri molto determinata, intelligente, vieni che ci proviamo”. Insomma, ho avuto la fortuna di incontrare la persona giusta al momento giusto.


Io la settimana scorsa ho visto “Riff Raff”, mi è piaciuto tantissimo. Ho avuto la sensazione che durasse pochissimo, anche se non è così, ma mi è piaciuto tanto, e non volevo che finisse. E poi il finale non me l’aspettavo proprio.
Una delle frasi che invece vengono dette proprio all’inizio del film è “Families are complicated”. Come è stato entrare in questa famiglia complicata?
Questa è una bella domanda. Sicuramente molte famiglie hanno le proprie disfunzionalità. Nel film viene trattato il tema dei rapporti difficili tra padre e figlio in diverse situazioni. Nel caso del personaggio di Lewis Pullman, Rocco, lui ha un rapporto complicato con il padre, così come D.J., il personaggio di Miles J. Harvey. Queste dinamiche hanno luogo all’interno di una situazione surreale: è stata la prima cosa che ho pensato quando ho letto il copione.
Ho preparato il mio personaggio pensando che Marina fosse un’orfana; quindi, nonostante la disfunzionalità della famiglia di Rocco, lei vede un’opportunità per dare una casa, una famiglia, un futuro al figlio che porta in grembo.
Marina e Rocco secondo me sono un po’ il cuore di questo film. Marina spera che la famiglia di Rocco possa rappresentare per lei e per il figlio una realtà che lei non ha mai avuto per sé: questa era un po’ la mia idea della storia. Alla fine, nonostante tutto, la famiglia è sempre unita, la famiglia vince su tutto.


E com’è stato entrare nella tua “famiglia cinematografica”?
È stato uno dei set più belli della mia vita: siamo stati un mese e mezzo tra New York e il New Jersey, abbiamo avuto veramente modo di conoscerci tutti. Ovviamente io ho passato più tempo con Miles, Lewis, ma anche con Bill Murray e con Jennifer Coolidge, che è fantastica. Quando la gente mi chiede, “Ma com’è Jennifer davvero?”, io rispondo “È Jennifer Coolidge”. [ride] È quello che vedi. L’energia, la chimica che si vede sullo schermo, c’era proprio per davvero anche sul set, la tensione di alcune scene si sentiva anche lì dal vivo.
In qualsiasi circostanza, di scena in scena, si è creata veramente una bellissima sinergia tra tutti gli attori, che tra l’altro sono tutti molto generosi, anche i più grandi. Una delle più grandi lezioni che ho imparato da questo film è che le più grandi star hanno la più grande umiltà. Le grandi star sono gli attori che veramente ti spronano e ti aiutano ad essere te stesso, nonostante la pressione del set e la soggezione che loro stessi possono incutere. Ovviamente, stare nella stessa stanza con professionisti come Bill Murray, Ed Harris, vere e proprie leggende, può incutere timore a un attore o a un’attrice, come nel mio caso, che rispetto a loro è ancora all’inizio della propria carriera. Loro invece hanno sempre avuto una parola di supporto, una battuta per smorzare l’agitazione che all’inizio ci può essere. Ecco, sin dall’inizio, sono stati una famiglia per me, e non disfunzionale [ride].
Sul set c’era un’energia bella, solare, un’aria di divertimento e di leggerezza. Certo, quando il regista chiamava l’azione, poi, le cose erano completamente diverse.



“In qualsiasi circostanza, di scena in scena, si è creata veramente una bellissima sinergia tra tutti gli attori, che tra l’altro sono tutti molto generosi, anche i più grandi.”

Quello che hai detto prima su Marina l’ho percepito molto guardando il film: lei mi sembrava quasi un personaggio un po’ etereo in confronto a tutti gli altri, un po’ diverso, che prega, che crede molto nell’amore, che è piena di speranza. È molto intelligente e sa quello che sta facendo, però è come se volesse un po’ alleggerire tutti i pesi che gli altri si portano sulle spalle. Com’è stato riuscire a creare questo personaggio che a me sembra un po’ “la luce” del film? Non so perché, ma quando c’eri tu in scena, mi sembrava che ci fosse proprio una luce diversa…
Dito Montiel, il regista, sin da subito mi ha dato una grandissima libertà a livello espressivo e livello comunicativo, dal momento in cui parlavo con lui del personaggio, alla rappresentazione concreta di Marina nel film. Sai, inizialmente il ruolo era stato scritto per un’attrice francese, quindi volevano che il personaggio avesse un accento francese, che dicesse delle cose in francese. Ho fatto il provino in francese, perché parlo anche francese, ne sarei stata capace; quando Dito mi ha incontrata al callback, io parlavo ovviamente in inglese con il mio accento, un accento europeo che però comunque non è francese. Lui ricordo che mi disse, “Ma dov’è andato a finire l’accento francese?” e io gli spiegai in quel momento che sono italiana. Ricordo che si ammutolì e dopo un po’ mi disse: “Ma sai che in realtà ci stavo pensando… forse fare Marina in italiano avrebbe anche più senso per la storia, forse non è un caso che ci stiamo parlando”.



Insomma, sin da quando ho fatto il primo provino sentivo che il ruolo di Marina in qualche modo sarebbe stato mio. La cosa di cui sono veramente orgogliosa è proprio che Dito mi abbia permesso di portare la mia italianità a Marina, a cui hanno cambiato anche il nome per me, da Marina Mercier a Marina Bravo, il che è stato un enorme onore. Dito è stato tanto generoso, anche nell’ascoltare le mie esigenze.
Poi, per quanto riguarda il personaggio, Marina è un po’ come dici tu. Indossa una corazza a volte, ma è una persona estremamente genuina. Come ti dicevo, probabilmente ha avuto un passato un po’ difficile, il che ha reso il personaggio vero e sensibile. Marina ha un cuore d’oro e tanto amore da dare, anche in situazioni difficili.

“La cosa di cui sono veramente orgogliosa è proprio che Dito [Montiel] mi abbia permesso di portare la mia italianità a Marina”

Il film mi ha presa molto, anche per i continui contrasti: succede una cosa, poi succede tutto il contrario, come ad esempio all’inizio con D.J. che non riesce a sparare neanche a uno scoiattolo, e poi invece vediamo che punta la pistola a suo padre; oppure le scene, quelle più violente con Rocco, in contrasto alle scene bellissime del vostro amore. Sono molto protagonisti anche i flashback…
Sì, io e Miles nel film abbiamo diversi flashback, mentre, io, Lewis e D.J. abbiamo delle bellissime voci narranti che danno al film molta sensibilità, secondo me. Miles ha fatto un lavoro eccezionale, così come D.J., è stato bravissimo, veramente. Ricordo che quando abbiamo girato la scena in cucina, in cui parliamo dell’amore, del fatto che quando incontrerai la persona giusta poi capirai ciò che significa l’amore veramente, lui doveva dire una battuta profonda, seria: la disse con tale nonchalance che io sentii una grande ammirazione per lui, così giovane e così talentuoso.
Quando abbiamo presentato il film al Festival del Cinema di Toronto, io ero incinta per davvero, e ho visto il film solo perché mi hanno costretta i produttori e il mio compagno, perché io odio guardarmi sullo schermo. Come dicevi tu, in sala il tempo è volato: l’ho trovato un film molto dinamico, molto divertente, molto crudo anche, in certe scene.



Quando Rocco o Marina arrivano in casa, o anche il personaggio di Jennifer Coolidge, guardano le foto, la casa in generale, ed è come se si trovassero in un museo di ricordi ai quali non hanno partecipato. Qual è il ricordo più bello che hai di Marina?
Sicuramente, la pancia finta [ride].
Non ero incinta prima, quando giravamo, e preparandomi al ruolo di Marina, che è incinta, avevo molta ansia: per esempio, non sapevo nemmeno in che modo una donna incinta si potesse sedere, come si tocca la pancia. Chiamavo chiunque, chiedevo, “Conosci qualcuno che è incinta? Conosci qualcuno che è stata incinta da poco? Devo fare domande”. Poi, ho scoperto che invece in realtà viene tutto naturale, forse noi donne abbiamo un istinto naturale che viene fuori quando abbiamo una pancia, che sia vera o finta. Quando ero in pausa, magari nel mio trailer a bermi un caffè, avevo la mano appoggiata alla pancia e me la accarezzavo in automatico, e alle volte mi guardavo e pensavo, “Ma che sto facendo?” [ride].
La mia “relazione” con la pancia finta mi ha aiutato tantissimo a calarmi nella parte. Dopo un mese, poi, sono rimasta incinta per davvero, quindi la pancia finta di Marina è diventata un simbolo che non dimenticherò mai: è stato un po’ come si dice, “Life imitates art, art imitates life”.



Io ho sempre l’impressione che voi attori, dato che dovete interpretare sempre personaggi diversi, in questo modo entrate in contatto con parti di voi che non conoscevate prima. Recitare diventa una forma di terapia, in un certo senso, un modo per scoprire costantemente nuove cose su voi stessi. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa grazie al tuo lavoro?
Sicuramente ogni set è diverso, ma io dico sempre che tu lasci il tuo personaggio quando finisci le riprese, ma il personaggio non lascerà mai te. Nel caso di “Riff Raff”, Marina mi ha lasciato la pancia.
Ogni volta scopri cose diverse su te stesso a seconda del personaggio, considerando anche che per essere un attore devi anche essere vulnerabile, e nella vulnerabilità ci sono nascoste tantissime cose. Tante volte credo che un personaggio forte ti possa lasciare la sua forza, quel tipo di forza che magari in circostanze reali non tireresti fuori, e invece attraverso la recitazione, attraverso un ruolo intenso, riesci a trovare dentro di te.
Essere vulnerabili per approcciare qualsiasi ruolo è molto importante: devi sicuramente essere molto sicuro di te stesso per poter interpretare ruoli che magari non ti saresti mai immaginato, ma anche molta vulnerabilità per dare forma ad un ruolo. Quando recitiamo, dobbiamo abbandonare noi stessi, pur rimanendo noi stessi, allo stesso tempo.

Penso che voi abbiate una dose di empatia enorme e soprattutto assenza di giudizio, utile se magari un giorno ti dovesse capitare di interpretare un serial killer…
Sì, esatto, e come dicevi anche tu, recitare è terapeutico. Se tornassi indietro a studiare psicologia, sarebbe stato molto molto interessante analizzare la mente umana, come ragioniamo in diverse situazioni, come la mente umana possa approcciare determinati contesti e determinati ruoli.

“Recitare è terapeutico”

Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione finora?
Quando avevo 15-16 anni, ho avuto un periodo ribelle, in cui mi vestivo punk, sono andata a farmi i buchi alle orecchie di nascosto dai miei genitori, mettevo le Converse e non le allacciavo, indossavo solo pantaloni e jeans neri. Insomma, da essere sempre molto femminile nel mio modo di vestire, quell’anno ho avuto un periodo po’ metal-punk. Tra l’altro avevo i capelli chiari, e ricordo che un giorno sono tornata a casa, ho comprato una tinta non permanente di colore nero-blu e mi sono colorata i capelli. In quel periodo iniziavo a provare le prime sigarette, ogni tanto saltavo la scuola, insomma ero una ribelle.


Qual è la tua più grande paura?
La mia più grande paura è sicuramente perdere un mio caro, una persona della mia famiglia.




E qual è il tuo più grande atto di coraggio?
Il mio più grande atto di coraggio è stato di non mollare mai. Sai, quando ti trasferisci in una nazione come l’America, che è enorme, venendo da un piccolo paesino, hai paura. Io, in particolare, avevo paura di non poter crescere nel mio settore, di non poter raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissata, di non riuscire ad avere successo. Ho avuto coraggio nel non mollare mai la presa. Tuttora, rimane sempre un “non mollare”, perché il mio è un settore in cui non si finisce mai di crescere, di affrontare nuovi set, nuove avventure, nuovi personaggi. Io credo che neanche gli artisti più famosi si sentano “arrivati”, perché un artista è sempre alla ricerca di qualcosa di più.



Ed è giusto così, perché sennò, se ti sentissi “arrivata”, completa, forse ti sentiresti meno motivata a crescere.
Esattamente, perché se ci si sente arrivati non si ha più quell’adrenalina, quella voglia, quell’emozione necessarie per scoprire nuovi personaggi, nuovi set, per raccontare storie.



E invece cosa significa per te, soprattutto in questo mondo che va tanto veloce, sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Sicuramente sentirsi a proprio agio implica accettare che bene o male tutte le persone ti giudicano: viviamo in una realtà dove il giudizio è parte della vita. Secondo me, arrendersi al fatto che verremmo giudicati, in un modo o nell’altro, ci può dare quel senso di libertà, ma anche di consapevolezza e di sicurezza, che poi ti fa sentire bene con te stesso e con gli altri. Perché alla fine se si è sicuri, se si è amati, se si è protetti, ci si sente bene nella propria pelle.

“Perché alla fine se si è sicuri, se si è amati, se si è protetti, ci si sente bene nella propria pelle.”

Qual è invece la tua isola felice?
La mia isola felice sono le persone che amo. Ovunque, ma con le persone che amo e che mi amano vicino, perché quella è la cosa fondamentale. Noi attori viaggiamo tanto, però poi ritornare a quell’isola felice dove c’è la famiglia è la cosa che alla fine mi rende più serena e più appagata.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Hair & Makeup by Silvia Acquapendente.
Styling by Ilaria Di Gasparro.
Location: Casa Mantegazza.
Thanks to M Punto.
LOOK 1
Dress: Zimmerman
LOOK 2
Dress: Gabriele Colangelo
Shoes: Antonio Marras
LOOK 3
Dress: Christian Boaro
Necklace: Alice Sambenati
LOOK 4
Dress: Marco Rambaldi
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