Venezia a fine agosto è tutta un’altra storia.
Venezia, con la Mostra del Cinema, è davvero qualcosa di fuori dall’ordinario.
Nell’ospitare un microcosmo temporaneo, che lascia però il segno nei mesi a venire, fino a quando non si ripete ciclico, sempre uguale ma sempre un po’ diverso, Venezia diventa una terra ricca di possibilità alla portata di tutti. Perché la Mostra del Cinema porta davanti agli occhi di tutti l’inimmaginabile: gli universi surreali dei film più grandi, quei personaggi inarrivabili che mai immagineresti di incontrare.
La nostra Cover di settembre è un esempio concreto di quello che succede a Venezia, con la Mostra del Cinema: Christoph Waltz, seduto ad un tavolino vista mare di fronte a me, mi ha raccontato della sua Venezia e del suo Herr Harlander. In “Frankenstein” di Guillermo Del Toro, Christoph interpreta un personaggio inedito rispetto al romanzo di Mary Shelley, un mercante d’armi che ha fatto fortuna commerciando con gli eserciti in guerra, interessato agli esperimenti scientifici di Victor Frankenstein [Oscar Isaac] sulla lotta contro la Morte nel suo stato permanente. La mia conversazione con Christoph è stata rigenerante: abbiamo parlato non solo di “Frankenstein”, ma anche di storie, di metodi, di talento, di sentimenti, di religione e di umanità. Un dibattito in crescendo che solo Venezia e, soprattutto, solo un’icona possono regalare.

Come sta, Mr. Waltz? Com’è Venezia?
Sto bene! Venezia non appartiene a questo mondo. Appartiene a sfere superiori, oltre l’orizzonte. La mia prima volta a Venezia, sai, avevo 10 o 12 anni, ci venni con la mia famiglia, e da allora, visito la città quasi ogni anno. Siamo arrivati l’altro ieri, viaggiando in treno da Milano, e a Mestre, il mio cuore ha iniziato a battere fortissimo, ho cominciato a sentirmi terribilmente emozionato. Sai, il treno da Mestre, quando attraversa il ponte, viaggia lentissimo, ed è stato in quel tratto che ho iniziato a sussurrare tra me e me, “Si va a Venezia, si va a Venezia”. Ogni volta che vengo in questa città, non importa che tempo ci sia, anzi, a volte Venezia è anche più bella quando è grigia e piovosa, mi chiedo come sia possibile che degli esseri umani, ad un certo punto della storia, abbiano avuto l’idea di costruire una comunità e un ambiente vivibile così straordinario.
Sì, letteralmente, fuori dall’ordinario. Questa città è speciale, e speriamo sopravviva agli orrori climatici, per esempio.
Sì, e al turismo, che è esagerato e devastante. Tutti vogliono vedere Venezia.


Parlando di “Frankenstein”, l’ho visto un paio di giorni fa e mi è piaciuto molto, dall’aspetto visivo alle performance agli archi narrativi dei personaggi. Guillermo Del Toro molto spesso nei suoi film crea un perfetto mix di bellezza e orrore, tenerezza e violenza. In che modo l’ha diretto per dar vita al suo personaggio, Harlander, affinché non risultasse un semplice cattivo, ma un uomo le cui scelte rivelassero la tragedia del suo tempo?
Guillermo ha scritto una gran bella sceneggiatura, ecco cosa ha fatto, una sceneggiatura che fa esattamente quello che dovrebbe fare: darti un’idea della grandezza e della complessità della storia. I dialoghi, sai, sono “solo” parole. Hanno importanza? Certamente, ma è il complesso, l’insieme delle assurde, ibride situazioni di una sceneggiatura che contano davvero. Un copione non è un’opera letteraria, ma non è nemmeno un manuale d’istruzioni. Quando dicono, “Dai, sii te stesso, puoi fare qualsiasi cosa!” io rispondo, “No, assolutamente no, non è così facile”.
Non è facile nemmeno saper essere sé stessi.
Tra l’altro, infatti! Sai, un bravo sceneggiatore suggerisce tutto ciò che il pubblico vorrà sentire e vedere quando guarderà la storia trasposta sullo schermo, e non è semplice farlo. Ma è così che Guillermo comunica, attraverso le storie, le immagini, e le parole – parlavamo tanto, non è affatto una persona timida, ti dice quello che pensa, quali sono le sue idee.

“…è il complesso, l’insieme delle assurde, ibride situazioni di una sceneggiatura che contano davvero.”
Il film esplora tematiche come l’abbandono, la responsabilità e la sete di riconoscimento. Come si inserisce Harlander in questa dinamica? Pensa che lui, a modo suo, si esasperi alla ricerca del potere o del riconoscimento per sostituire l’amore che non ha?
Sì, concordo con questa tua bellissima interpretazione. È la tua proiezione che conta, e sono contento che tu l’abbia condivisa, anche perché sai cosa penso? Che la mia di interpretazione non conta, perché io sono l’interprete.
È vero!
Ad un certo punto nel film, la Creatura dice che “la violenza è inevitabile, ti uccidono anche solo per quello che sei”. Secondo lei, questa storia può essere una metafora delle nostre paure e dei nostri pregiudizi contemporanei nei confronti di ciò che percepiamo come “diverso”?
Sì, decisamente, il che però non distingue questa storia da qualsiasi altra storia che parla di sensibilità umana in maniera autentica. Ogni grande storia attinge dalla nostra cultura, dal nostro subconscio, dal passato, dalle nostre paure, speranze, ansie del futuro. A cosa servono le storie? Perché sono state inventate tante migliaia di anni fa? Per darci l’opportunità di proiettare ed occuparci della nostra esistenza. Altrimenti, potremmo benissimo essere rimpiazzati dall’IA perché, dal punto di vista evoluzionistico, non faremmo alcuna differenza.

Un altro punto focale della storia di “Frankenstein” è: dove si trova l’anima in un corpo, e cos’è che anima il corpo? Ci ho pensato molto dopo aver guardato il film, e mi sono chiesta: l’idea che l’anima possa alloggiare anche in qualcosa dall’aspetto “mostruoso” cosa rivela del modo in cui giudichiamo gli altri nella vita?
Tu sei religiosa?
No, non direi.
Ma hai avuto un’educazione cattolica.
Sì, esatto.
Sai, quando parli dell’anima che alloggia nel corpo, trovo che sia un pensiero bellissimo, anche perché magari è proprio così, ma io penso che l’anima ci indichi la via, qualifichi l’energia che deriva dal nostro cervello e dai cicli fisiologici che animano il corpo. Quindi, evito di fare supposizioni su quello che l’anima può e non può fare. La religione invece lo fa e lo capisco, per ottimi motivi, ma io personalmente sono un po’ più cauto su questi temi.

“Io penso che l’anima ci indichi la via, qualifichi l’energia che deriva dal nostro cervello e dai cicli fisiologici che animano il corpo.”

“Il dolore è prova di intelligenza” è una battuta del film che mi ha colpito. Come si applica questo concetto nella sua vita e nella sua personale riflessione sull’esperienza umana?
Semplicemente non si applica, penso sia solo retorica romantica [ride]. È un’idea dell’artista del Diciannovesimo secolo che solo dal dolore può nascere l’arte o, in questo caso, l’intelligenza. Se è vero che il dolore è prova di intelligenza, allora il Dalai Lama è stupido? No, non credo.
Forse anche questo è un concetto radicato nella religione, legato alla nozione di sacrificio e al valore che il cattolicesimo gli dà.
Sì, la Chiesa opera attraverso il dolore perché per loro è fonte di potere – possono liberarti dal dolore e sono gli unici a poterlo fare e se glielo permetti, allora sono disposti a considerarti intelligente. Ma anche questa questione della Chiesa è infinitamente più complicata di così, il nostro è solo un pregiudizio laico, in un certo senso.
Comunque, io non credo che il dolore e l’intelligenza siano connessi. Il dolore è connesso con l’esperienza, piuttosto, e il modo in cui processi un’esperienza ha a che fare con la tua intelligenza.


Interessante, sono d’accordo.
Ha interpretato molti personaggi complessi, divisi tra moralità e pragmatismo. Dove risiede l’unicità di Harlander, paragonandolo ai suoi ruoli precedenti?
Ancora una volta, la sceneggiatura. Io non decido niente, io non giudico nemmeno, perché non mi sarebbe per niente utile. La mia opinione per te è irrilevante, e per questo sono contento di aver sentito la tua interpretazione della storia, perché è quella che conta. Dunque, io disprezzo ed evito i giudizi morali sui personaggi che interpreto. Cosa richiede la sceneggiatura? Cosa devo fare io? Qual è la storia? Io credo fermamente nella domanda: “Che cos’è?”.
Quindi, lei tende ad essere molto razionale nel momento in cui lavora ad un personaggio.
Di sicuro non fingo di credere che solo dal dolore possa nascere l’arte. Ci sono delle disposizioni di cui tener conto, perché la storia esiste, e non la invento io, quindi, non infondo la storia con i miei sentimenti. Inoltre, viviamo in un momento storico in cui i sentimenti personali diventano la misura di ogni cosa – io sono profondamente in disaccordo. In misura minore, è quello a cui cerco di pensare quando leggo una sceneggiatura. A volte, sì, la prima impressione e quello che provo sono per me una guida istintiva, ma non necessariamente.
Trovo che i miei sentimenti riguardo qualcosa non siano particolarmente interessanti – sono della Bilancia, i miei sentimenti cambiano di minuto in minuto. Ho bisogno di linee guida tangibili, e queste non le trovo necessariamente nei sentimenti.

Questo dice molto del suo modo di lavorare e dell’origine delle sue abilità.
Sai, sono grato di averle, ma allo stesso tempo sento una certa responsabilità sulle mie spalle, e poi, oltre a questo, okay, grazie mille, e adesso? Divento meritevole per sempre? Non credo. Il talento è come una pianta – se non te ne curi adeguatamente, se la metti nel punto sbagliato del tuo appartamento, dove non riceve abbastanza luce, se ti dimentichi di innaffiarla, puff – ecco che fine fa il tuo talento.
E cosa spera che il pubblico porti a casa da questa nuova versione di “Frankenstein” – soprattutto in un mondo in cui ambizione, guerra, e la ricerca di appartenenza sono elementi ancora così profondamente interconnessi?
Prima di tutto, spero che tutti inizino a pensare o a deviare un po’ la direzione dei loro pensieri. Verso dove, non credo sia il film a doverlo stabilire, perché penso dipenda tutto da voi spettatori. Ma il film offre molte opportunità. Anche se lo guardi per lo spettacolo che è, vale i soldi del biglietto, perché il film ti dà tutto quello che vuoi e anche di più, non trovi?
Sì, ho già detto a tutti: “Andate a vederlo al cinema”.
Sì, assolutamente, ma non solo per la sua opulenza visiva. Il film va visto al cinema precisamente per quello che mi chiedevi tu, perché ti lascerà moltissimo. E soprattutto se pensi che parla di te, porterai a casa moltissimo.

“Il talento è come una pianta – se non te ne curi adeguatamente, se la metti nel punto sbagliato del tuo appartamento, dove non riceve abbastanza luce, se ti dimentichi di innaffiarla, puff – ecco che fine fa il tuo talento.”
Ho apprezzato davvero la profondità emotiva di questa storia. “Frankenstein” parla di sentirsi fuori posto, o senza un posto, senza amore, a disagio tra i pezzi di un corpo che si è ricevuto senza la possibilità di chiedere o scegliere alcunché…
Tu parli di autonomia, nel senso di capacità di cambiare qualcosa attraverso le proprie azioni.
La mancanza di autonomia isola le persone; è una questione sociale. Se fossi un vero e proprio marxista, adesso mi dilungherei in un discorso sull’alienazione delle masse e la strumentalizzazione del lavoro e dell’animo umano al servizio del capitale. Non lo farò. Ma, sai, è attraverso il riconoscimento che i bambini sopravvivono – un bimbo piange, la mamma lo sente, ed è questo che fa sopravvivere il bimbo, non è il latte materno, è il riconoscimento materno. È stato osservato, e non solo tra gli animali, che se una creatura, animale o umana che sia, viene trascurata, si indebolisce e muore, proprio come le piante e il talento di cui parlavamo poco fa. Quindi, sì, questa storia è immensamente profonda.

Photos by Johnny Carrano.
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