Ci sono incontri che non si dimenticano, anche quando avvengono in silenzio, dentro un sogno, nel buio di una sala o tra le note rauche di una voce che canta il dolore, la rabbia, la fame di vita. Così è stato per Anita Pomario, che ha prestato il corpo, la voce e il cuore a Rosa Balistreri, figura potentissima della tradizione popolare siciliana, in “L’amore che ho”.
La mia conversazione con Anita è stata un viaggio intimo, intenso, in cui ci siamo addentrate nel suo processo creativo e umano, fatto di paura e di scoperta, di lotta per affermare sé stessa e l’esigenza di restituire verità a una donna che non ha mai chinato il capo. Con dolcezza e determinazione, Anita ci mostra come si possa abbracciare un’eredità senza esserne schiacciati, ma lasciandosi trasformare.
E forse, in fondo, è proprio questa la lezione più profonda che ci regala: che abitare davvero un personaggio è anche un modo per abitare meglio sé stessi.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Ricordo una volta in cui ero in Germania, avevo circa 14 anni, stavo facendo una sorta di vacanza lì di tre mesi in cui lavoravo. Una sera, per caso, guardai il film “Tutto su mia madre” di Almodovar. Per la prima volta mi sentì scossa, cominciai a piangere, e non solo perché il film mi aveva commossa: qualcosa mi si era acceso dentro, mi aveva riempita, e mi sentivo viva. Infatti, poi “Tutto su mia madre” è rimasto sempre uno dei film che mi commuove di più. Lo stesso vale per “Mulholland Drive”: era la prima volta in cui io da sola guardavo un film che mi stimolava delle cose, dentro che mi faceva accendere delle riflessioni.


Ora, interpretare il personaggio di Rosa Balistreri ne “L’amore che ho” è sicuramente stata una sfida intensa, tanto quanto intensa è la storia che il film racconta. Qual è stato il primo pensiero che hai avuto quando ti è stato proposto questo ruolo?
Quando Paolo Licata mi ha chiamata per dirmi che avevo avuto la parte, un paio di giorni prima di Natale, io ero con mia madre a Milano e lui, dopo un anno che non lo sentivo, mi disse: “Allora sei pronta? Tra un mese iniziamo a studiare”. Io ne rimasi totalmente scioccata [ride].
All’inizio, ero molto spaventata, avevo paura perché sentivo tantissima responsabilità nei confronti di una donna con cui io sono cresciuta, in un certo senso. Noi, in Sicilia, siamo cresciuti con le canzoni di Rosa e poi quel mondo lo conosco molto bene, mi appartiene, è il mondo di mia nonna: la storia di Rosa e la storia di tantissime donne siciliane, e non solo, purtroppo. Poi, io non sono una cantante, quindi per me tirar fuori la voce è stata una sfida grandissima, e in questo Carmen Consoli è stata una maestra immensa.
Un’altra sfida è stata il fatto che non ci fosse tantissimo materiale relativo alla gioventù di Rosa: io avevo soltanto delle foto e un video in cui parlava. Quindi, è stato interessante dover inventare un po’ l’adolescenza di questo personaggio molto conosciuto, ed è stato bello incontrarsi a metà strada. Più la studiavo e più volevo capire che cosa lei avrebbe potuto pensare o come avrebbe potuto muoversi, lavorando tanto sul corpo, sul modo di reagire.
Più la studiavo e più sentivo che io e lei a un certo punto ci incontravamo, ed è stato bello salutarla.


Siete diventate una sola persona. Ma come ti sei preparata per restituire la sua umanità e la sua voce con autenticità?
Allora, io la ascoltavo sempre, c’è stato un periodo in cui ne sentivo il bisogno, e poi io ho un vizio: a me piace addormentarmi ripetendo mentalmente i monologhi che devo fare, le battute che devo dire e lo faccio soprattutto per un esercizio di memoria. Però, quando dovevo interpretare Rosa, mi ricordo che non facevo altro che addormentarmi con le sue canzoni. Il giorno prima di girare ho fatto un sogno assurdo in cui io da bambina parlavo a me stessa adulta e mi dicevo “Divertiti, corri”. Tra l’altro, la prima in assoluto che abbiamo girato è stata la scena in cui Rosa corre per strada per andare sotto casa di Angelino, quindi è stato magico, perché ho avuto questo sogno premonitore in cui mi dicevo di giocare come Rosa non ha mai potuto fare, in un certo senso.
Per me è stato bello cercare di comprenderla e di accettarla per quello che era. Tra i suoi video che ho visto, ce n’è uno che mi ha ispirato moltissimo. Premessa: lei era analfabeta, soprattutto da più giovane, ma aveva una forza e una voglia di spaccare immense.
In questa intervista bellissima le chiedono come ha fatto ad imparare a parlare l’italiano e lei dice, “Io ho imparato l’italiano scrivendo il mio nome, Rosa. Prima la R, poi la O, poi la S, poi la A”. L’ho trovata un’immagine straordinaria di una donna che ha imparato a vivere grazie a sé stessa e tramite sé stessa, sulla sua pelle. Il mio lavoro di attrice è stato quello di lasciarmi andare alla sua essenza, che non è stato per niente facile.

“Divertiti, corri”

Carmen Consoli, che appare anche nel film e firma le musiche originali, ha spesso dichiarato quanto Rosa sia stata per lei un faro. Avete avuto modo di confrontarvi su questo comune amore?
Carmen è una persona incredibile, è un fuoco di energia.
È stato bellissimo lavorare con lei, perché mi ha aiutata a lasciarmi andare. Durante le prove di canto, lei mi diceva, “Non cantare, interpreta. A me non interessa che tu canti bene, io voglio sentire quella cosa nella tua voce che non ha nessuno. Fregatene di essere intonata: c’è quel graffio, quel tono della tua voce che è solo tuo ed è il motivo per cui tu interpreti Rosa”. Carmen è stata fondamentale in un momento in cui l’idea di cantare mi metteva molta paura e a disagio: grazie a lei ho capito che non serviva che fossi una cantante, perché nemmeno Rosa lo era, lei cantava per necessità, quindi era necessario che facessi uscire quella necessità che prescinde totalmente dal fatto di essere intonata o meno. Non abbiamo avuto tantissimo tempo per provare, però io e Carmen abbiamo passato ore a casa sua a ripetere le canzoni, a cantare insieme, e poi lei ha un talento veramente straordinario, quindi è stato bello anche semplicemente condividere lo spazio con lei per un po’.



Rosa è una donna che ha lottato contro la mafia, il patriarcato e le ingiustizie sociali. Cosa ti ha colpito di più del suo coraggio e della sua visione politica?
Il fatto che lei non abbia mai accettato il compromesso. Soprattutto al giorno d’oggi, la trovo una cosa difficilissima che io forse non avrei il coraggio di fare anche banalmente nella vita quotidiana. Rosa non si è mai accontentata, non ha mai scelto la strada più facile soltanto perché era la cosa che le conveniva di più. E il fatto che una donna sia riuscita a portare avanti questa sua idea di giustizia, di valori, una donna che proveniva dal nulla, allora vuol dire che è fattibile per tutti, nonostante il suo non scendere a compromessi l’abbia portata ad avere una vita infernale, a soffrire tantissimo, perché probabilmente sarebbe stato molto più semplice se lei avesse detto sì in svariate occasioni. Però, lei questo “sì” lo diceva soltanto quando aveva voglia e questo mi ha insegnato tantissimo. Anche il fatto che lei non abbia mai perso la fiducia in sé stessa: era una persona estremamente arrogante, molto difficile. Però era anche il suo modo per combattere contro il mondo, riconoscendo il suo valore perché non gliela aveva mai riconosciuto nessuno. Rosa diceva, “Io ci credo in quello che faccio, io lo faccio per un motivo”. Anche io, che faccio questo mestiere, tante volte mi dico, “Ma chi me lo fa fare?”. Ma poi mi ricordo che lo faccio perché è importante, perché è il mio modo di portare avanti un’idea.


E cosa speri che il pubblico che guarda quest’opera poi porti dentro di sé, a casa?
La libertà, la celebrazione di avere coraggio nella vita nonostante tutto. Io non vorrei che fosse visto come la classica storia triste, drammatica, di violenza sulle donne, un po’ legata sempre alla nostra Sicilia. Io credo che nel film ci sia molto di più, soprattutto perché racconta una figura come quella di Rosa. Vorrei che quello che emerga sia proprio questa sua voglia di libertà, di prendere la vita a morsi, di rubarla con le unghie, di azzannarla, perché secondo me lei aveva questo modo un po’ animalesco, felino, di vivere la vita, che io trovo straordinario, perché vuol dire che l’ha vissuta veramente.
Quindi vorrei che la gente esca dal cinema con la voglia di strappare la vita a morsi.


E a te invece che tipo di eredità emotiva ha lasciato questo personaggio?
Per me è stato un ruolo più completo, più “rotondo”, perché è stata la prima volta che ho avuto modo di divertirmi, di costruire qualcosa. Figure come Rosa mi hanno sempre ispirata tantissimo e mi commuoveva l’idea che dovevo dare voce a questo personaggio, che mi ha poi lasciato dentro tanta tenerezza. Rosa mi ha fatto capire anche delle cose di me che apprezzo molto di più adesso rispetto a prima. Credo che se incontrassi Rosa adesso, com’era quando era giovane, potremmo essere delle buone amiche. Certo, forse litigheremmo in continuazione, perché abbiamo dei caratteri molto simili! [Ride]

“Per me è stato un ruolo più completo, più ‘rotondo’, perché è stata la prima volta che ho avuto modo di divertirmi, di costruire qualcosa”

Mi hai parlato così bene anche del tempo che hai trascorso sul set: c’è un momento che ti è rimasto particolarmente nel cuore risalente a quando giravate? Un aneddoto che hai voglia di raccontare magari?
Sì, c’è stato un momento estremamente divertente. Durante la scena del pranzo, in cui ad un certo punto siamo seduti con la sorella di Rosa e il cognato, Rosa a un certo punto deve compiere un gesto estremo davanti a tutti. Innanzitutto, devo ringraziare tantissimo il regista, perché si è affidato totalmente alla mia follia: infatti in quel momento ero entrata in un vortice in cui avevo voglia di fare, di provare cose, senza paura di sbagliare, il che mi ha portata ad improvvisare totalmente quella scena. Quindi è stato un momento epico, in cui ho cominciato a sbraitare con una forchetta in mano [ride], e di quella scena abbiamo fatto un solo take! Lì mi sono proprio divertita, è stato un momento in cui ho pensato, “Wow, che bello poter essere così liberi sul set”.
Alla fine, è questo che mi piace del cinema, il non sapere mai esattamente cosa succederà mentre giri una scena.



Dicevi prima che interpretando questo personaggio, hai anche scoperto delle cose di te che prima non conoscevi. Cos’è che hai scoperto su te stessa grazie a questo ruolo?
Ho capito che non mi piacciono i compromessi, che non sono fatta per i compromessi, non mi piacciono le vie di mezzo. Ho anche scoperto che certe volte, purtroppo, non si può fare come faceva Rosa, e infatti nel mondo di oggi non lo fa quasi nessuno ormai. Ho scoperto che anch’io do un’importanza enorme all’amore, come lei, e poi ho scoperto il mio valore al di là di quello che dicono gli altri, al di là del riconoscimento che puoi ottenere dagli altri, sia a livello pubblico che a livello personale, che quanto valiamo è una cosa solo nostra. Tante volte, soprattutto in quest’ultimo periodo, mi sto mettendo in discussione, pensando, “Forse ho qualcosa che non va, forse non sono abbastanza per questa persona, per questo lavoro”. Ma ho imparato a riconoscermi: ora so che cosa sono. Imparare che cosa si è, secondo me, è fondamentale per andare avanti e per non avere paura.


“quanto valiamo è una cosa solo nostra”


Il film poi è stato tutto girato in Sicilia, dico bene? Ed è un viaggio, magari anche per chi in Sicilia non c’è mai stato, in quell’anima più profonda, più autentica del Paese. Com’è stato per te immergerti in quei luoghi, in quella cultura, che poi è anche la tua? Com’è stato riviverla in un’epoca passata?
È stato stranissimo. In realtà, abbiamo girato in un posto in cui non ero mai stata, Piana degli Albanesi, della cui esistenza non avevo nemmeno idea. Si tratta di un posto allucinante: si chiama Piana degli Albanesi perché una comunità di Albanesi si è trasferita lì dalla madrepatria, ed è un luogo magico, pieno di ristoranti albanesi, con le indicazioni stradali in albanese, e una micro-comunità. Lì non sembra nemmeno di stare in Sicilia, si trova in mezzo alle colline, quindi totalmente al di fuori del mondo. Nel periodo in cui giravo io, ho passato molto tempo da sola, anche perché avevo una casa al centro della città che era un po’ dislocata rispetto a dove stavano tutti gli altri. Quindi, ho vissuto un momento un po’ mistico in cui mi sentivo estremamente abbandonata, considerando anche il personaggio a cui lavoravo, che ti porta già a una chiusura, a una solitudine indotte. È stato molto difficile, ricordo che non dormivo, facevo dei sogni molto strani, come mi capita sempre quando lavoro. Poi, sai, quando lavoro, mi ritrovo in qualche modo sempre in una condizione di stare “in un posto che non esiste”, perché è un po’ la condizione del set o del teatro, quel non-luogo che non è reale, ma un universo parallelo, costruito apposta per te.
In quel contesto lì, mi sentivo proprio in un altro mondo, dove tutto scorreva al di fuori di me.


Il tuo è stato un percorso artistico internazionale, tra New York, Londra e Berlino. Come influisce il tuo background teatrale sulla costruzione dei personaggi destinati al grande o piccolo schermo?
Il teatro per me è un luogo fondamentale, costituisce pienamente quello che io considero il mio lavoro, che rappresenta per me una necessità. Il teatro mi ha insegnato a trasmettere questa necessità, a utilizzarla, e poi ogni volta si traduce nei diversi personaggi, e si tratta di una necessità di connettere, di esprimere, di condividere. Il teatro ti insegna a giocare, a non prenderti troppo sul serio, a rischiare, a soffrire veramente, a metterti tu in prima fila. È come se fossi quasi sull’orlo del precipizio quando sei a teatro. Giocare con questo senso del rischio nel cinema è molto divertente, perché ovviamente sul set tu puoi permetterti sbagliare, ma lo sbaglio è la cosa più magica che possa capitare. Bisogna lasciarsi sorprendere da sé stessi. Io mi diverto quando gioco con me stessa, è come se fosse una sfida continua, e c’è uno studio lunghissimo dietro, fatto di letture, comprensioni, ascolti. E poi tutto quello studi lo dimentichi quando arrivi sul set o sul palco.


“Una necessità di connettere, di esprimere, di condividere”

Sul set, o anche dietro le quinte, qual è il tuo must-have?
Io ho sempre con me il mio quaderno dove disegno: mi rilassa molto disegnare. Non ho amuleti o niente del genere. Poi, sono un po’ grafomane, ho un po’ questa necessità di scarabocchiare di continuo: quando sono nervosa, quando mi preparo in camerino, scarabocchio di continuo, anche sempre la stessa parola.


Nella vita o nella carriera, qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Tornare in Italia, tornare a casa. Dopo essere andata via e aver vissuto via per tantissimo tempo, la cosa più difficile che ho fatto è stata decidere di tornare qui, vicino alla famiglia. È tanto difficile quanto andar via.
E invece qual è la tua più grande paura?
Non essere in grado di sorridere, non essere serena.


Qual è stato il vaffanculo più soddisfacente della tua vita?
Quando non mi hanno presa alla Silvia D’Amico. In quel momento, piuttosto che riprovarci, ho deciso di provare a entrare in un’accademia a New York, la Neighborhood Playhouse. E mi hanno presa. E poi dopo sono entrata anche in RADA, quindi ho detto, “Vaffanculo Roma e Italia!” [ride].
Comprensibile! [ride]
Cosa o chi ti fa sorridere?
Mio nipote, che ha un anno, mi fa sorridere perché tutto lo fa sorridere. È incredibile, i bambini piccoli sono veramente magici, vivono in un mondo che non esiste, ogni cosa che vedono è come se fosse straordinaria. Dev’essere bellissimo scoprire il mondo così, e questo pensiero mi fa sorridere tantissimo.
Poi mi fa sorridere sentire le persone attorno a me, quando non me l’aspetto, che hanno dei pensieri belli, che mi commuovono. Qualche tempo fa, stavo camminando in giro per Roma e c’è stata questa folata di vento per cui un sacco di denti di leone hanno cominciato a volare per aria e c’era un bambino con suo papà che gli fa, “Papà, papà, che cos’è?”, e lui in inglese gli dice, “I spy with my little eye an angel”, che è un modo di dire in inglese che letteralmente significa “vedo col mio occhio piccolino un angelo” e si riferiva ai denti di leone. Quella cosa mi ha fatto sorridere.

E invece cosa ti fa sentire sicura e al sicuro?
Mi fa sentire sicura essere consapevole di chi sono e del mio valore, cosa che mi fa anche sentire al sicuro. Ho imparato a non avere più quell’ansia, quell’angoscia legata all’incertezza di questo mestiere, di questo mondo. Oggi, quando l’ansia comincia a farsi sentire, mi dico, “No. So quello che faccio”. È questo essere consapevole che mi fa sentire al sicuro.
E qual è per te il panorama più bello del mondo?
A Ustica ho visto un panorama bellissimo, semplicemente perché c’era il mare. Quindi forse ti direi che non c’è niente che mi riempie gli occhi e il cuore più del mare.


Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È difficile ai giorni d’oggi.
Ci sono tanti momenti in cui non mi sento a mio agio nella mia pelle e nel mio corpo. Sai, io credo che ci sia una differenza fra l’amarsi e il sentirsi a proprio agio nel proprio corpo. L’amarsi è una cosa che ha a che fare solamente con sé stessi: io mi amo alla follia, nonostante non mi senta a mio agio nella mia pelle. Invece, il sentirsi a proprio agio ha a che fare anche con gli altri, perché siamo sempre un po’ legati agli altri, e questo rapporto fra noi e l’altro è difficile da equilibrare. Forse, significa essere gentili con sé stessi, essere teneri, il che è una cosa difficile da imparare. Ma è importante usare le giuste parole nei confronti di sé stessi e degli altri.
Qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è un posto che non esiste più. Una casetta in una strada, che adesso non è più come era prima, in un paesino della Sicilia che si chiama San Lorenzo, dove passavo le vacanze estive con la mia famiglia. Lì tutto era perfetto. Lì ho dei ricordi della luce del pomeriggio, il sole delle tre di pomeriggio in agosto, di una tranquillità che non esiste più. È un ricordo perfetto il pensiero di quel tempo lì, di quella casa, di quella strada.
C’è un altro luogo che adesso ha preso il posto di quella casa?
No, non c’è niente come quella, però va bene così, perché adesso voglio costruirmi la mia nuova isola felice, casa mia. È giusto che quell’isola non esista più e che io abbia quel ricordo bellissimo di quell’isola. E poi me ne creerò un altro.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup & Hair by Sofia Caspani.
Location: Antica Trattoria Ambrosiana.
Thanks to M Punto Comunicazione.
LOOK 1
Dress: Francesca Piccini
LOOK 2
Total Look: Sportmax
Shoes: A. Bocca
LOOK 3
Total look: Francesca Piccini
Shoes: A. Bocca
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