C’è una luce particolare che sembra seguire Charity Wakefield – brillante, curiosa, dolcemente ribelle – una specie di bagliore che appare insieme senza tempo e profondamente contemporaneo. È la stessa energia che infonde in ogni personaggio che interpreta, che sia la decadenza caotica di “The Great”, o le eroine di Jane Austen, o l’impegno per la sostenibilità.
Per la nostra Cover Story di dicembre incontriamo un’artista che si muove nel mondo con sincerità e scintilla: qualcuno innamorato delle storie che meritano di essere raccontate, che crede ancora nel loro potere di cambiare la cultura, e che non ha paura di chiedersi come il cinema – e la moda, e le abitudini quotidiane – possano essere più leggeri sul pianeta.
Con il cuore aperto, Charity parla di coraggio, immaginazione, narrazione storica, il brivido dell’improvvisazione e la struggente bellezza del mondo naturale.
Questo è il ritratto di un’attrice che non sta solo plasmando il proprio mestiere, ma il futuro in cui desidera vivere.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Non è proprio il mio primo ricordo cinematografico, ma la mia prima grande “impressione del cinema”, o la prima volta in cui il cinema mi ha davvero colpita, è stata quando ho visto “Titanic” con il mio ragazzo dell’epoca. Era un film immenso allora, e non riuscivo a credere a quanto potesse essere incredibile il cinema.
Ricordo di essermi sentita completamente catturata e immersa in quel mondo immaginario – era un film così complesso, elaborato e meraviglioso. Ho anche un vago ricordo di me che mi guardo allo specchio in bagno e penso: “Potrei farlo anch’io?”. Ovviamente non capivo molto di come si giravano i film, e penso che allora credessi che lei fosse stata nell’acqua gelida per giorni a filmare [ride]. Ora so che era in una piscina con acqua riscaldata in studio, ma credo che il mio dubbio fosse: “Avrei il talento necessario per fare un film così grande?”. Insomma, allora iniziai a pensare che forse avrei potuto lavorare in quel mondo.
Credi che ci fosse abbastanza spazio per Leonardo DiCaprio su quella porta? [ride]
Sì! [ride]
Però, sai, è molto “Romeo e Giulietta”, no? Aveva bisogno di un finale drammatico, probabilmente serviva per farci capire l’importanza di apprezzare le persone che amiamo quando sono ancora qui.


Quando ti avvicini a un personaggio, cosa cerchi di solito in una sceneggiatura? Hai un approccio più emotivo o razionale?
Decisamente più emotivo. C’è qualcosa che ti cattura in una sceneggiatura, e non deve necessariamente avere un senso logico. Non è questione di budget o di quanto ti pagano, né di chi c’è nel cast o nella troupe. È più legato alla sensazione di ciò che il progetto sta cercando di esplorare, e può dipendere dal tema: se è interessante, anche se i dialoghi non sono eccellenti, il fatto di poter imparare qualcosa può essere molto attraente.
Di solito ci sono una o due cose davvero brillanti, e a quel punto sei dentro – poi serve fortuna per ottenere il ruolo. Perché a volte, se penso che qualcosa sia incredibile, divento nervosissima ai provini. La mia peggiore esperienza è stata l’audizione per “Jane Eyre”, una serie TV. Volevo quella parte così tanto che ho fatto un provino orribile – sembrava tutto troppo grande per me. Alla fine, mi hanno offerto un ruolo minuscolo, anche se non ho ottenuto quello principale, ed è stato uno dei miei primi piccoli lavori. Credo che sia per questo che sono attratta dai film in costume: è un mondo completamente nuovo da scoprire, posso lasciarmi coinvolgere, o magari è solo una reazione di pancia.
Sono una persona che ama fare cose nuove. Prima di diventare attrice desideravo dedicarmi a mille cose diverse – non riuscivo mai a definirmi. Fare l’attrice, se hai fortuna, significa che ogni progetto è un mondo nuovo, e questo soddisfa quella mia esigenza.

“C’è qualcosa che ti cattura in una sceneggiatura, e non deve necessariamente avere un senso logico”.

Dato che hai interpretato vari personaggi storici, il tuo approccio cambia rispetto ai personaggi di finzione?
Sì, credo di sì.
Per esempio, in “The Great”, una serie su Caterina la Grande, l’autore Tony McNamara parte dal materiale storico ma poi imprime la sua impronta come scrittore. Ricordo che alla prima prova noi attori eravamo arrivati con grandi libri su Caterina la Grande, c’è tantissima storia russa da comprendere. Quando ci ha visti, Tony ci ha detto subito: “Lasciate perdere i libri. Non preoccupatevi. Alcune cose le dimenticheremo, altre le inventeremo da zero”.
Lo stesso approccio l’aveva usato in “La favorita” di Yorgos Lanthimos, su Anna di Gran Bretagna: prende ciò che gli interessa e poi trasforma i personaggi quasi in figure da favola. È interessante, perché da una parte vorrei conoscere la verità storica, dall’altra mi rendo conto che gran parte della storia è l’opinione di qualcuno. Non sapremo mai davvero com’è andata.
Tony scrive strizzando l’occhio al presente. Quando lavorava a “The Great”, Trump era appena salito al potere con lo slogan “Make America Great Again”. Non sorprende quindi il titolo. Era un commento sulla cultura populista contemporanea: osserviamo la politica moderna attraverso il passato.



Come ti sei quindi avvicinata al tuo personaggio, con questo metodo così affascinante e insolito?
Ho comunque studiato il periodo, anche se poi non attingevamo direttamente alla storia, perché devi costruire un mondo coerente con quel contesto. Poi però abbiamo creato una nostra tradizione: la corte era incredibilmente dissoluta, piena di feste, sesso, violazioni delle regole, si gridava “Huzzah!” e si lanciavano bicchieri.
Avevamo anche una straordinaria direttrice del movimento, Polly Bennett, che ci guidava nelle coreografie e nell’etichetta: questo significa che il comportamento del tuo personaggio deriva dal modo collettivo di muoversi e non da scelte individuali. Una volta stabilito lo stile, capisci fin dove puoi spingerti.
Tony voleva che la vita emotiva dei personaggi fosse reale, anche se ciò che dicevano o facevano oggi ci sembra folle. E proprio questo lo rendeva divertente: noi recitavamo con serietà e intensità, ma quello che facevamo, agli occhi contemporanei, era completamente assurdo.
Con personaggi realmente esistiti è tutto diverso: il pubblico ha un legame, anche emotivo, con quelle figure, così come idee molto forti su come dovrebbero essere rappresentate. In parte devi tenerne conto, in parte devi lasciar andare.
Per esempio, Jane Austen, su cui ho appena fatto un documentario BBC: quando ho interpretato Marianne in “Ragione e sentimento”, c’era già il film con Kate Winslet ed Emma Thompson, le mie eroine. Ho deciso di non riguardarlo, perché avrei pensato: “Perché ci provo? Lei è perfetta”. Non volevo assorbirla né copiarla. Volevo costruire qualcosa di mio.
È un personaggio fittizio, sì, ma creato da un’autrice amatissima, quindi devi rispettare le aspettative dei lettori. Ho parlato con molte persone, di background diversi, che avevano letto il romanzo, per capire come immaginassero Marianne. E poi, quando entri nel processo filmico, devi soprattutto capire cosa vede il regista.
Sto anche iniziando a produrre miei progetti, quindi penso molto a come creare un set, una troupe, un mondo. E dato che ciò che voglio fare è ambientato in contesti storici, rifletto anche sull’impatto ambientale del cinema. Sono ambasciatrice del Woodland Trust: raccolgo fondi, porto storie sugli alberi e le foreste nello spazio pubblico. Così, mentre produco, mi chiedo: “Come posso creare un processo filmico più gentile verso la Terra?”. Fa parte della mia missione: realizzare opere il cui processo sia rigenerativo, usare la natura come sfondo, raccontare questioni ambientali.
Mi ispira molto l’Equity Green Rider, una campagna del sindacato attori britannico, guidata da Will Attenborough e Dinusha Samal. Invitano gli attori a includere nei contratti un impegno ambientale: chiedere cosa possiamo fare, nel nostro lavoro, per ridurre l’impatto. Chiedere ai produttori di partecipare alla conversazione.

Parlando del tuo ruolo di attivista ambientale: come sta andando? Quali sono i tuoi obiettivi per rendere l’industria più verde, e di cosa sei più fiera?
Uno dei progetti a cui sto lavorando riguarda il giardinaggio. Ho scoperto cose scioccanti: molte pratiche sono molto dannose per il pianeta.




In che senso?
Il giardinaggio spesso manipola la natura per renderla come la vogliamo noi. Va bene, ma alcune pratiche sono distruttive: pianti qualcosa e poi la togli; in spazi pubblici può significare piantare fiori per due mesi e poi buttarli via.
Se devo girare una serie sul giardinaggio, devo capire come farlo in modo sostenibile. Ed è una sfida enorme. Ho un anno e mezzo per sviluppare storia e processo produttivo. È un’occasione bellissima: voglio trovare un luogo che abbia davvero bisogno di aiuto agricolo, un terreno impoverito da rigenerare con il nostro lavoro, invece di rovinare un bel giardino per esigenze narrative. Sto ragionando proprio su questo.


A proposito di sostenibilità: nel nostro magazine abbiamo una rubrica di moda sostenibile, The Green Side. Qual è il tuo rapporto con la moda, sapendo che è la seconda industria più inquinante?
È un tema che mi interessa moltissimo.
Sono cresciuta con pochi soldi, compravo quasi tutto nei negozi di seconda mano. Da adolescente ero abituata a rovistare tra gli abiti di seconda mano. Poi, quando ho iniziato a guadagnare davvero, ho desiderato cose nuove – è stato un piccolo tranello. Pensavo: “Non voglio più indossare cose donate da altri”, che era stata la mia infanzia.
Ma verso la fine dei miei vent’anni ci sono tornata completamente in questo loop. Avevo tantissimi vestiti, continuavo comunque a comprare nei mercatini perché trovavo pezzi interessanti. A un certo punto con una mia amica abbiamo aperto un banco vintage, che ha funzionato bene. Siamo passate da piccoli tavolini ai mercati universitari, poi a installazioni di due o tre giorni con vetrine nostre.
Ho imparato moltissimo: sui tessuti, sulla storia della moda, sul perché le persone comprano o conservano gli abiti. Poi abbiamo avuto un negozio per due anni. È stata un’esperienza bellissima: recitavo, ma avevo anche questo progetto più stabile, con una mia amica, molto creativo. Nel retro c’era la parrucchiera Tracy Cahoon, straordinaria hairstylist, e facevamo feste, serate di poesia, musica.
Poi ho dovuto chiudere perché sono andata a lavorare in America. E lì è cambiato tutto: Instagram, l’immagine pubblica, le scelte visibili. Spesso chi viene vestito da uno stylist non sceglie davvero: ti dicono “La produzione vuole questo”, oppure lo stylist vuole farti apparire al meglio. E non era facile trovare opzioni sostenibili, soprattutto per i red carpet.
A un certo punto ho deciso: dev’essere tutto sostenibile, o almeno il designer deve impegnarsi davvero. Una volta posta quella regola, la scelta si è ridotta – e va bene. Preferisco avere meno opzioni ma essere coerente. Scrivevo sempre da chi prendevo i vestiti in prestito, cercavo di amplificarne il lavoro.
Ora sto pensando di fare di più: Instagram è effimero, lo adoro per questo. Vorrei scrivere testi più lunghi sulla moda etica. E magari curare io stessa i set fotografici: sarebbe un ottimo esercizio per il mio futuro nel cinema, un modo per imparare a raccontare attraverso le immagini. Stay tuned.

Tornando a Jane Austen: hai detto che il suo messaggio alle giovani donne è “ti vedo e ti ascolto”, quasi materno. Qual è la sua lezione più grande – o quella che hai tratto dal tuo lavoro legato a lei – che vale ancora oggi per una donna che cerca il proprio posto nel mondo?
Credo che la prima lezione sia l’atto stesso di scrivere, il coraggio di farlo. Io penso tante idee, ma non le realizzo tutte: ho paura di fallire, di non essere abbastanza brava, o di non essere ciò che gli altri pensano io debba essere. Ma bisogna provarci: mettere le parole sulla pagina. La pratica rende perfetti, non è vero? Ma il primo passo è fondamentale.
E oggi abbiamo più strumenti per comprendere cosa ci blocca. A quel tempo avevano meno distrazioni: niente serie TV la sera; solo la candela e la domanda “come uso il mio tempo?”.
Nei suoi romanzi Jane ci invita a essere presenti, vivi, curiosi, connessi agli altri. E nella sua vita penso sempre alla sua ostinazione: firmare con uno pseudonimo maschile, ricomprare i propri manoscritti, continuare nonostante tutto. Nessun marito, pochi soldi, nessuna sicurezza. Avrebbe potuto sposarsi, ma ha scelto l’arte. È stato coraggiosissimo.
La sua lezione? Avere coraggio. Questo è ciò che porto con me.

“Bisogna provarci: mettere le parole sulla pagina. La pratica rende perfetti, non è vero? Ma il primo passo è fondamentale.”


Tornando a Jane Austen: hai detto che il suo messaggio alle giovani donne è “ti vedo e ti ascolto”, quasi materno. Qual è la sua lezione più grande – o quella che hai tratto dal tuo lavoro legato a lei – che vale ancora oggi per una donna che cerca il proprio posto nel mondo?
Credo che la prima lezione sia l’atto stesso di scrivere, il coraggio di farlo. Io penso tante idee, ma non le realizzo tutte: ho paura di fallire, di non essere abbastanza brava, o di non essere ciò che gli altri pensano io debba essere. Ma bisogna provarci: mettere le parole sulla pagina. La pratica rende perfetti, non è vero? Ma il primo passo è fondamentale.
E oggi abbiamo più strumenti per comprendere cosa ci blocca. A quel tempo avevano meno distrazioni: niente serie TV la sera; solo la candela e la domanda “come uso il mio tempo?”.
Nei suoi romanzi Jane ci invita a essere presenti, vivi, curiosi, connessi agli altri. E nella sua vita penso sempre alla sua ostinazione: firmare con uno pseudonimo maschile, ricomprare i propri manoscritti, continuare nonostante tutto. Nessun marito, pochi soldi, nessuna sicurezza. Avrebbe potuto sposarsi, ma ha scelto l’arte. È stato coraggiosissimo.
La sua lezione? Avere coraggio. Questo è ciò che porto con me.

C’è un personaggio che sogni di interpretare – non per forza storico, anche un tipo?
Mi piacerebbe interpretare un’avventuriera. Qualcuno che va nella natura selvaggia e vive da sola. C’è moltissimo dentro quell’esperienza: saper sopravvivere, affrontare il mondo. Sono molto preoccupata per il pianeta e mi affascina interpretare chi affronta quel tipo di vita.
È un tema che compare in uno dei film a cui sto lavorando, ambientato 150 anni fa, con esploratori. Sarebbe una bellissima sfida psicologica: sopravvivere in solitudine. Puoi essere preparato quanto vuoi, ma non puoi prevedere cosa farà la tua mente. È affascinante e spaventoso insieme.



Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa, anche grazie al lavoro?
Che mi piace tantissimo l’improvvisazione comica. Quest’anno ho girato un film, “Preschool”, su due coppie di genitori che competono per iscrivere i figli alla scuola materna migliore.
La sceneggiatura era ottima e il regista, Josh Duhamel – che interpreta anche mio marito – era molto rilassato. Prima delle riprese ci ha detto che potevamo improvvisare. Se sentivamo che c’era altro da dire, potevamo farlo. Così ho scritto una scena extra, un monologo… Non sapevo di esserne capace. Ero nervosa, ma l’ho fatto, ed è stato accettato. Ho alcune battute mie nel film, il che è terrificante perché devono essere buone!
È stata un’esperienza liberatoria. Ringrazio Josh per lo spazio che ci ha dato, perché tanti registi non vogliono improvvisazioni o non hanno tempo. Anche noi avevamo pochissimo tempo e denaro, ma hanno trovato un modo. Mi ha sorpresa, e voglio farlo più spesso.


Qual è stato il tuo gesto più grande di ribellione?
Probabilmente quando sono andata in Thailandia a 18 anni. Decisi di non andare subito all’università e prendermi un anno sabbatico; lavorai in due posti, per orari lunghissimi. I miei genitori non volevano che viaggiassi sola, per questioni di sicurezza. Ma ci sono andata comunque, anche se erano arrabbiati. Ora mi sento in colpa perché li ho fatti preoccupare tantissimo: era il 1998, non avevo né cellulare né email.
Ma sono felice di averlo fatto. È stato un mese soltanto, ma per me era enorme, e mi ha dato una grande indipendenza.

E qual è la tua paura più grande?
Vorrei dire i ragni, ma in realtà mi piacciono. Mia madre invece li temeva, ma un giorno allo zoo, nel reparto dove si possono toccare gli animali, ha deciso di affrontare la sua paura. Ha chiesto di tenere una tarantola. Il guardiano le ha detto: “Fred”, era il suo nome, “è in pausa; si stressa se lo maneggiano troppo”.
L’idea che un ragno possa stressarsi, che abbia un suo mondo, ha aiutato mia madre. È tornata più tardi, lo ha tenuto in mano ed è stata una bella esperienza.




Che meraviglia. E cosa significa per te sentirti bene nella tua pelle?
Indossare jeans comodissimi e una T-shirt, stare all’aria aperta. Mi sento al meglio in mare o in un grande campo. Se sono felice, mi metto a fare la verticale o la capriola, gioco con il mio cane, la mia famiglia, mio figlio. Sentire l’erba sotto i piedi, l’acqua… Sono cresciuta vicino al mare, e quando sono stressata cerco di organizzare una giornata per immergermi di nuovo.

Quindi il tuo posto felice è l’acqua?
Sì, penso proprio di sì.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup by Justine Jenkins.
Hair by Paul Donovan.
Styling by Chloe Beeney.
LOOK 1
Prink ruffle dress: Lisa
LOOK 2
Dress: Story MFG
LOOK 3
Black halter neck crochet dress: Fine Art of Design Vintage – Palm Springs
LOOK 4
Rose jumper: Lisa
Crochet shorts: Arket


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