C’è una tacita intensità nel modo in cui Jesse Williams parla – un ritmo meditante e meditato che rispecchia la dualità di “Hotel Costiera”, la nuova serie Prime Video che lo ha portato in Italia, letteralmente ed emotivamente.
Noto per il suo attivismo sociale e per una carriera sospesa tra arte e finalità, Jesse veste i panni di Daniel DeLuca, un uomo sospeso tra due vite, due Paesi, ed un’infinita ricerca di significato.
“Hotel Costiera” è un mix di mistero, dramma, e dark humor: un tipo di progetto che gli lascia esplorare ogni lato della sua artisticità, l’ironia, la profondità, l’azione e la vulnerabilità insita nel sentirsi persi.
Discutendo dell’arte della performance, della disciplina della preparazione, o dei silenziosi momenti di fuga e scoperta di sé, la mia chiacchierata con Jesse coglie l’attore dietro il personaggio, offrendo uno sguardo più ravvicinato sulla nostra Cover di ottobre.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Non è la prima volta che sono andato al cinema, ma la volta in cui io e i miei amici ci siamo intrufolati in sala per vedere “Tartarughe Ninja”.


Perché “intrufolati”?
Per guardarlo una seconda volta, dopo aver pagato per vedere la prima! [ride]

Mi sembra giusto! [ride] Parliamo di “Hotel Costiera”: come sei entrato a far parte di questo progetto e quali sono state le tue prime impressioni quando hai letto la sceneggiatura?
Mi è stato proposto quando ancora era solo una prima bozza, scritta interamente in italiano e poi tradotta in inglese. Adam Bernstein, il nostro showrunner – che ha un curriculum incredibile con serie come “Breaking Bad”, “Better Call Saul” e “Fargo” – mi ha chiesto di incontrarci per parlarne. Ho subito amato il personaggio: un uomo perso, nonostante si sia dedicato a tante cose nella vita, tranne che a sé stesso. Mi sembrava un personaggio interessante da esplorare, anche perché avremmo girato tutto in un Paese lontano dal mio. Daniel è un uomo sospeso tra due mondi, e tutti questi elementi mi sembravano ottimi ingredienti per costruire un’interpretazione.



“Ho subito amato il personaggio: un uomo perso, nonostante si sia dedicato a tante cose nella vita, tranne che a sé stesso.”

In effetti, la serie è piuttosto unica perché mescola dramma, mistero, commedia e anche azione. Come hai gestito questo equilibrio nella tua interpretazione?
Una delle cose che più mi ha affascinato è stata proprio la possibilità di fare commedia, ma anche di recitare “nel senso tradizionale”, con dramma, intensità e posta in gioco alta. E poi amo l’azione: era da un po’ che volevo cimentarmi in qualcosa del genere – sono un po’ tradizionalista in questo campo. Sono cresciuto guardando film d’azione, e per me è un genere super divertente. Come produttore, inoltre, mi ha aiutato a tracciare la struttura narrativa, partecipare allo sviluppo della storia, al casting, alla progettazione del racconto, assicurandomi che non fossimo sbilanciati su un tono o sull’altro.
Detto ciò, ci siamo impegnati a rendere ogni episodio leggermente diverso nel tono rispetto al precedente, per lasciare spazio a crescita e cambiamento.


Parlando del tuo personaggio: Daniel sembra una persona sola forse anche a causa del suo lavoro e del fatto che non riesce ad aprirsi con gli altri. Come ti sei avvicinato a lui?
Daniel è come una barca senza timone, che può solo andare alla deriva – era importante trasmettere questo fin dall’inizio. È un leader, ma è anche disorientato. Come mostrare entrambe le cose davanti alla macchina da presa? È stata una sfida davvero interessante per me. Molto dipendeva dalla direzione che la storia prendeva: una volta che so dove sto andando, posso vivere con verità ogni scena, ogni momento. Non è compito del personaggio vedere il quadro generale: deve solo essere presente nel momento. Quindi ho cercato di non fissarmi su una lista di “cose da fare”, ma di esserci davvero, nel presente.



Tornando al tuo ruolo di produttore: come ha influenzato il tuo approccio alla storia e ai temi della serie indossare entrambi i panni, quello dell’attore e quello del produttore?
Per me è stato un grande vantaggio, perché mi ha dato una visione d’insieme e la possibilità di incidere sul tutto.
Il cinema è un’arte profondamente collaborativa: tutti influenzano tutti. È molto più lavoro, più impegno mentale ed emotivo, perché devi prestare attenzione a ogni dettaglio. Ma allo stesso tempo ti fa sentire al sicuro, perché impari da persone di enorme talento e puoi discutere di tutto ciò che ruota intorno al personaggio. Questo ti dà fiducia nel fatto che il progetto sia nelle mani giuste e che riusciremo a raggiungere ciò che ci siamo prefissati.


“Il cinema è un’arte profondamente collaborativa.”


Certo. Ho visto un’intervista in cui dicevi che ciò che porterai con te da questa esperienza è un senso di famiglia, sia perché la famiglia è un tema centrale nella serie, sia perché ti ha affascinato il modo in cui viene vissuta in Italia. Pensi che questa esperienza abbia in qualche modo cambiato o amplificato la tua idea di famiglia?
Non so se l’ha cambiata, ma mi ha sicuramente incoraggiato. Anche se sono dall’altra parte del mondo, ho scoperto che la cultura non è poi così diversa da quella in cui sono cresciuto.
La famiglia è una parte enorme della mia cultura, e questo è stato un bel promemoria. Ho trascorso quasi cinque mesi in Italia per le riprese, e negli ultimi tre mesi ci sono tornato cinque volte: ormai è diventata davvero una seconda casa per me. E questo è molto prezioso.



Sono felice di sentirlo. Questa serie, come dicevamo, è anche molto divertente. Che ruolo ha la comicità nella tua vita?
Un ruolo molto importante, in realtà. Gran parte di ciò che faccio – attivismo, lavoro, questioni di giustizia sociale – è molto serio. E sono cresciuto con la commedia, con la comicità britannica, Monty Python ed Eddie Murphy. La risata è un collante tra me, i miei fratelli e i miei genitori: è una parte enorme della nostra vita.
Penso che la comicità sia fondamentale come contrappeso quando ti occupi di cose molto serie: ti aiuta a restare lucido ed equilibrato. In un certo senso, è una forma di terapia. È anche difficile da fare bene, richiede un’intelligenza acuta, rapidità, precisione… Ho un grande rispetto per l’arte comica.

“Penso che la comicità sia fondamentale come contrappeso quando ti occupi di cose molto serie: ti aiuta a restare lucido ed equilibrato.”


È più difficile di quanto sembri, sì. Se dovessi descrivere “Hotel Costiera” con una sola parola?
Divertente!
Gli attori hanno la possibilità di conoscersi a fondo anche grazie alle tante vite che vivono. Cosa hai scoperto di te stesso, di recente, grazie al tuo lavoro?
Bella domanda. Penso che una delle sfide più grandi di questo progetto, così lungo e lontano da casa, sia stata la distanza dai miei figli. È il periodo più lungo in cui sono stato lontano da loro, ed è stato davvero difficile. Ma abbiamo trovato un modo per gestirlo, io e loro. È stata una sfida personale che ho dovuto affrontare, perché la vita privata influisce sul lavoro. Mi sono buttato in questo impegno e in questo sacrificio, e ne sono uscito felice e soddisfatto. Ho imparato molto su come affrontare la prossima occasione.


A Venezia, durante il Festival del Cinema, hai detto: “Non lasciare che la perfezione diventi nemica del bene”. Ti è mai successo? Come l’hai superata?
Assolutamente sì. Mi succede spesso, soprattutto quando scrivo. Se non è perfetto, penso che non sia finito e quindi non riesco a condividerlo o a fare il passo successivo. È un modo per rimandare, per restare bloccati. Poi guardi altre persone che invece finiscono le cose – magari non perfette, nemmeno sempre buone – ma le portano a termine, mentre i perfezionisti soffocano ai margini e chi è più ambizioso entra in gioco. C’è una grande lezione sottintesa qui: bisogna trovare un equilibrio tra il fare le cose con integrità e il valore del concluderle.
Cosa non può mai mancare sul set?
Semplice: acqua e burrocacao.

E cosa ti fa ridere più di tutto?
Sicuramente i miei figli. E poi una battuta intelligente, una scrittura brillante. Quando sento una grande battuta ben costruita e ben recitata, mi torna in mente anche ore dopo: il modo in cui è scritta, il linguaggio del corpo, l’esecuzione… è qualcosa che mi resta.
Quando ti senti più al sicuro e più sicuro di te?
Quando sono preparato. So com’è la sensazione di non esserlo, di dover improvvisare, e non è piacevole.
Mio padre mi ha insegnato fin da bambino l’importanza della preparazione: “Sii pronto, così non dovrai prepararti all’ultimo momento”. È una base solida da cui poi puoi permetterti di giocare, ma senza quella base è disorientante.
Quindi sì, mi sento più sicuro quando ci sono “meno sorprese”, perché sono pronto a tutto, pur lasciando spazio alla spontaneità. La preparazione risolve un sacco di problemi.
Cosa stai leggendo in questo periodo?
Vivo a Los Angeles e passo molto tempo in macchina, quindi ascolto tanti audiolibri. Al momento non sto leggendo un romanzo, ma leggo spesso il New Yorker.

Interessante! E l’ultimo film o serie che hai visto e che ti è piaciuto particolarmente?
Vediamo… Ho appena visto “Stick” e “The Last of Us”. E ho rivisto “Heat”.
Ah, quindi sei uno che riguarda le cose.
Sì. Riguardo spesso film che ho visto solo all’uscita, negli anni ’90 o nei primi 2000. Alcuni meritano proprio una seconda visione.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Ero un ragazzino molto ribelle. Sempre nei guai, sempre a combinare qualcosa, a sgattaiolare fuori di casa – un incubo per i miei genitori.
Comunque, nel mio lavoro, dove tutti vogliono qualcosa da te – foto, video, contenuti – penso che il più grande atto di ribellione sia sapersi proteggere, difendere il proprio spazio e dire “no”. È la parola più potente in qualsiasi lingua, e più pressione abbiamo addosso, più abbiamo paura di usarla. Ma è fondamentale.
E invece, qual è la tua più grande paura?
Non vivere all’altezza del mio potenziale.


Cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Significa poter parlare onestamente, fare domande, ammettere di non sapere. Essere davvero libero.
Mi piace molto stare solo, ma quando sto con qualcuno, dev’essere qualcuno di cui mi fido davvero, con cui posso esprimermi senza che ciò che dico venga usato o trasformato in una “moneta” sociale. Significa essere liberi da manipolazioni e secondi fini.
Viaggi molto, ma cosa è per te “casa”?
Casa è ovunque ci siano i miei figli, di solito a Los Angeles. Casa è il mio divano. Viaggio tanto, ma tornare, togliersi le scarpe e sentirsi “off” è impagabile.
E poi, un’altra forma di casa è il mare, la vela, stare in barca vicino alla casa di mia madre nel Maine. Amo navigare, stare lontano da tutto, immerso nella natura.
Direi che la distanza dalle persone è un tema ricorrente per me: sono a metà tra introverso ed estroverso. Mi piace divertirmi, ma mi scarica tantissimo.
Ti capisco benissimo, anch’io sono così: a volte bisogna isolarsi per ricaricare le energie.
Sì, ma anche stare con le persone può essere una forma di ricarica.
Vero, ed è proprio questo che a volte confonde. Ultima domanda: qual è il tuo posto felice?
Il mio posto felice è in barca, sull’oceano. Il silenzio, l’esperienza umile e potente di essere in qualcosa di così immenso come il mare, che può darti pace o distruggerti senza preavviso. Ascoltare la natura – quello è il mio posto felice, sulla costa o al largo del Maine.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Rachid Tahar using Armani Beauty.
Styling by Law Roach.
Location: Sina Centurion Palace.
Thanks to Armani Beauty.
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