Pochi personaggi della fantascienza sono ipnotici quanto Demerzel, l’androide leale e misterioso al centro di “Foundation” di Apple TV+. È servitrice e manipolatrice, protettrice ed esecutrice, macchina e, forse, qualcosa di più. A darle vita è Laura Birn, la cui interpretazione è diventata rapidamente una delle forze più magnetiche della serie.
Ciò che rende Laura affascinante è il modo in cui incarna non solo le contraddizioni di un’androide immortale, ma anche le stesse domande che “Foundation” osa porre: sulla memoria, la libertà e su cosa significhi davvero essere umani. Nelle sue parole, Demerzel diventa meno un personaggio che uno specchio – riflettendo i nostri dubbi, desideri e il fragile equilibrio tra controllo e scelta.
“Foundation” si basa su una delle saghe di fantascienza più influenti mai scritte. Quanto ti sei immersa nell’opera di Asimov prima di entrare nel ruolo?
Ho letto i libri perché volevo saperne di più, dato che quel mondo non mi era familiare. Non guardavo molta fantascienza prima, quindi per me era tutto nuovo. Ho un figlio piccolo che nello stesso periodo ha iniziato a entrare nel mondo sci-fi insieme a me, così stiamo esplorando questi universi insieme. Ovviamente ci sono differenze tra i libri e la serie, ma resta importante capire su cosa ci appoggiamo.


Il tuo personaggio, Demerzel, è così complesso e affascinante — è un’informatrice, ma anche una manipolatrice; è madre, amante, assassina. È piena di mistero. Come hai affrontato l’interpretazione di qualcuno con così tanti strati?
Penso che sia uno dei personaggi più affascinanti, e ciò che amo di lei è che è impossibile dire se sia una “buona” o una “cattiva”, un’eroina o una villain. È un po’ tutto. Come hai detto, è capace di orrori e crudeltà oltre ogni immaginazione e, allo stesso tempo, è la più leale e amorevole. Comprendiamo che è capace di amare o di sentire amore, ma è mai libera di esplorarlo o è sempre programmata? Ovviamente, essendo una macchina, è programmata, ma cosa significa questo? C’è qualcosa dentro di lei che, pur essendo programmata, è puramente suo? Ha vissuto per 25.000 anni, ricorda tutto, è costruita per ricordare. Quanto ha influito questo sui suoi valori o sulla parte della sua mente non controllata dalla programmazione? Ha visto tutta l’umanità, la bellezza dell’essere umani e anche i lati oscuri. Quanto questo l’ha segnata?
Penso che sia affascinante perché è una macchina, ma la sua storia ci porta inevitabilmente a pensare a noi stessi – siamo mai veramente liberi? La verità è che anch’io sono stata programmata dai miei genitori, dalla società, dalla cultura finlandese, dall’educazione, dalle scuole che ho frequentato, dagli insegnanti che ho avuto, dalle persone vicine a me. Quindi, anche se penso di essere libera di pensare ciò che voglio, sono stati 44 anni di “programmazione” e informazioni.
Quindi, le domande sono: c’è un luogo libero dentro di noi? C’è un’anima o un “io” puro e autentico da qualche parte? O lottiamo tutti con domande simili a quelle che lei stessa si pone? Siamo mai veramente liberi di scegliere?
Sai, la scrittura è così sfumata che incarnare Demerzel è come un’esplorazione infinita di me stessa, dell’umanità e del lato artificiale, meccanico. Un viaggio che amo, perché ogni stagione diventa più complesso e interessante: non ci si annoia mai a interpretare lo stesso personaggio per anni.


“Penso che sia affascinante perché è una macchina, ma la sua storia ci porta inevitabilmente a pensare a noi stessi – siamo mai veramente liberi?”

Qual è stato l’aspetto più difficile nel ritrarre un’androide che spesso sembra più umana degli stessi umani che la circondano?
Credo che la chiave sia trovare un equilibrio tra il lato meccanico e quello più umano, la vita interiore che ha accumulato in migliaia di anni. Nella seconda stagione, c’è un flashback in cui vediamo come sia diventata parte dell’Impero. Girare quella sequenza nel sotterraneo, dove viene fatta a pezzi, è stato speciale e qualcosa che non avevo mai fatto prima. Dal momento che era tagliata in varie parti, potevo usare solo la voce e gli occhi, quindi la sfida era trovare la forza o la sensibilità senza muovere un solo muscolo del corpo, per poi costruire da lì quando viene rimessa insieme e ricomincia a controllare il corpo, a usare la sua potenza.
Eppure, anche allora, sa di essere una vittima, rimane una prigioniera. È tutto molto sottile, tutto accade nei dettagli, e adoro questo. Demerzel è un’arma letale, una macchina da combattimento, ma al tempo stesso è così delicata. Dentro di lei c’è tantissima vita, ma all’esterno mostra un controllo assoluto. È una danza, e adoro questo contrasto. Una sfida che non mi ha mai stancata.



Adoro quel conflitto tra lato meccanico e lato umano. Anche perché in alcune scene piange, e pensi: “Oh mio Dio, ma un androide può piangere?”. È un tema molto interessante.
Beh, penso che se qualcuno avesse dovuto assistere a tutto ciò che accade nel mondo e nella storia – e a come la storia si ripete, a come gli esseri umani finiscono per commettere gli stessi errori, mostrare la stessa crudeltà, non riuscire a provare empatia verso chi è diverso – se qualcuno avesse dovuto assistere a questo per 25.000 anni, la sua anima ne sarebbe inevitabilmente spezzata. Quindi non mi sorprende che a volte pianga.

La serie affronta temi forti come, per esempio, destino contro libero arbitrio. Come si inserisce Demerzel in questa tensione, secondo te?
Beh, lei è al centro di queste domande. Ha un libero arbitrio? Questa è la questione principale. E sappiamo che in parte non ce l’ha, perché è programmata per servire l’Impero. Ma nell’ultima stagione le cose diventano molto interessanti, perché entra in possesso del Prime Radiant, uno strumento che può in qualche modo prevedere il futuro, e vi scorge qualcosa che potrebbe significare la fine della dinastia o addirittura l’estinzione della specie umana.
Cosa significherebbe per lei la caduta della dinastia? Forse significherebbe essere finalmente libera, perché non sarebbe più sotto quel controllo, quella programmazione. Ma allo stesso tempo è programmata per combattere contro quella possibilità. Probabilmente è questo conflitto a trascinarla in una crisi esistenziale. Naturalmente, si chiede: “Posso persino desiderare la libertà? La voglio perché lo voglio io o perché fa parte della mia programmazione?”.
Un’altra domanda è: “Le azioni di una singola persona possono influenzare la società, o addirittura l’intera umanità?”. Sai, Demerzel ha molto potere nella galassia, le sue decisioni fanno davvero la differenza. Ma questo vale anche per gli esseri umani: crediamo che le azioni di una persona possano cambiare qualcosa? O pensiamo: “Beh, io non posso fare niente, tanto non cambierà nulla”? Il mondo è immenso, ci vivono miliardi di persone, puoi sentirti minuscolo e pensare che le tue azioni non abbiano un impatto, se non sul tuo nucleo più vicino di amici o famiglia.

Ci sono stati momenti, lavorando a “Foundation”, che ti hanno spinta a riflettere personalmente su temi come moralità, identità o potere?
Sì, credo che la terza stagione sia quella in cui mi sono sentita più vicina a queste domande. È davvero incentrata su: come diventiamo ciò che siamo? Quanto controllo abbiamo realmente sulle nostre opinioni? Perché gran parte di ciò che portiamo con noi viene dalle nostre famiglie.
A un certo punto della vita, ci fermiamo a riflettere: questo è ciò in cui credo davvero, questi sono i miei valori. E quei valori possono coincidere con quelli dei nostri genitori, o essere completamente diversi. Ma penso che ognuno di noi abbia bisogno di quel momento di chiarezza in cui può dire: questo è ciò che conta per me, questo è il modo in cui credo di dovermi comportare verso gli altri. Perché altrimenti è facile lasciarsi trascinare da ciò che ci è stato detto, senza davvero metterlo in discussione.
Per me, questa stagione è stata tutta una riflessione su come diventiamo ciò che siamo, e su quale responsabilità portiamo per le nostre opinioni, i nostri valori, le nostre azioni. E poi, ovviamente, c’è il caos del mondo, quanto tutto sia confuso e pieno di paura al momento. È facile tracciare paralleli con il presente. Sentire persone al potere dire cose che, 10 o 20 anni fa, non avrei mai immaginato potessero essere dette ad alta voce su altri esseri umani – eppure ora sono in qualche modo normalizzate. Questo ti fa davvero chiedere: dove stiamo andando?


“Penso che ognuno di noi abbia bisogno di quel momento di chiarezza in cui può dire: questo è ciò che conta per me, questo è il modo in cui credo di dovermi comportare verso gli altri.”


E com’è l’atmosfera sul set, considerando il mix tra spettacolo fantascientifico e narrazione profondamente emotiva?
Anche se i temi sono pesanti e profondi, il processo di realizzazione della serie è divertente. È una cosa che ho notato spesso: quando lavori su materiale cupo o profondo, c’è molta leggerezza, molte risate tra una scena e l’altra. Ovviamente, quando entri in scena vai a fondo, ma fuori da quel momento c’è gioia. E onestamente, mi sento così fortunata ad avere i miei Cleon – i miei Imperatori. Li adoro tutti.
Abbiamo passato tanti anni insieme ormai, attraversato il COVID, vissuto in bolle in Irlanda e alle Isole Canarie. Negli ultimi anni ho trascorso più tempo con loro che con alcuni dei miei amici più cari. Sono divertenti, intelligenti, ambiziosi, curiosi della vita – davvero i migliori colleghi che potessi desiderare. E tutti hanno quello scintillio negli occhi, quella consapevolezza che, “Sì, stiamo governando la galassia”, ma anche, “Ehi, siamo nello spazio!”.
Adoro come Lee [Pace] dica: “Sono l’imperatore della galassia” e riesca a renderlo giocoso, pur prendendolo seriamente. Serve davvero quel senso di divertimento quando lavori con temi così cupi. E con Lee in particolare, adoro come porti sempre un senso di pericolo nel suo personaggio – una delle figure più violente della galassia – ma anche qualcosa di profondamente umano, persino ironico. Rende i suoi personaggi divertenti, anche quando sembrano impossibili. Lavorare con tutti loro è stata pura gioia.

Cosa speri che il pubblico porti con sé dalla storia di Demerzel all’interno della narrativa più ampia di “Foundation”?
Onestamente, non credo sia mio compito dire cosa la gente dovrebbe portarsi dietro. Soprattutto con questa storia, ci sono così tante direzioni possibili, così tante domande che puoi ritrovarti a portare con te. La bellezza dell’arte è proprio questa: sei libero di viverla, e qualcosa di diverso risuonerà a seconda della tua vita, di ciò che hai letto o visto di recente, o di ciò che ti interessa in quel momento.
Ho sentito reazioni molto diverse da persone diverse – ciò che le tocca, ciò che trovano affascinante – e lo adoro. Non voglio guidare o limitare l’interpretazione di nessuno.


Quando scegli un progetto, cosa conta di più per te: la storia, il regista o il ruolo in sé?
Tutti questi possono essere motivi validi. Se la sceneggiatura è davvero buona, è facile buttarsi. Ci sono anche registi con cui lavorerei a prescindere, solo perché trovo affascinante il loro lavoro. E poi c’è la “zona di pericolo” – quando qualcosa mi spaventa. Questo per me è molto attraente.
All’inizio della mia carriera, ho iniziato a ricevere molte offerte simili tra loro. All’inizio ero entusiasta, ma dopo un po’ mi sono annoiata di me stessa, come se non sapessi più come renderle diverse.
Così, quando arriva una parte che non so minimamente come affrontare, che sembra impossibile – è proprio quella che mi attira. Qualcosa di nuovo, che non ho mai provato, per cui non ho ancora risposte. È come un’avventura: leggi il copione e pensi, “È fantastico, ma come sopravviverò a questo?”. Quella sensazione mi elettrizza.
Ma onestamente, molto è questione di intuizione. A volte sento semplicemente una sensazione, e mi butto.


Qual è il tuo must-have sul set – qualcosa di cui hai bisogno con te?
Non ne ho davvero uno. Una volta un’amica mi ha regalato una piccola pietra che sentivo speciale, e l’ho portata con me per un po’. Poi l’ho persa e sono andata nel panico, pensando di aver perso tutto. Quell’esperienza mi ha insegnato a non affezionarmi troppo a nessun oggetto.
Ho lavorato su piccoli film indipendenti e su “Foundation”, con la sua scala enorme, e amo come ogni progetto mi costringa ad adattarmi, a trovare nuove energie con nuove persone. Ogni volta cambio un po’, e lo adoro. Per questo non ho rituali rigidi o must-have – è più bello restare flessibili e lasciarsi modellare da ogni progetto in modo diverso.



Qual è l’ultimo film o serie TV che hai visto e che ti è rimasto dentro?
Ho appena visto un film danese intitolato “The Second Victim”, un dramma ospedaliero. È stato così potente che ho dovuto metterlo in pausa più volte perché piangevo troppo. I danesi sono incredibili nel creare drammi morali intensi che ti chiedono: “Qual è la cosa giusta da fare?”. È stato travolgente ma profondamente toccante.
Ho visto anche un film d’esordio finlandese che mi è sembrato così fresco e autentico, come se brillasse la voce stessa del regista. Questo mi ispira sempre. Il cinema finlandese è in un momento fragile, con i tagli ai finanziamenti culturali, ma c’è tantissima creatività e urgenza – registi con storie che devono raccontare. Il film si intitola “Valo joka ei koskaan sammu” (“La luce che non si spegne mai”). È stato proiettato a Cannes la scorsa primavera in una sezione per esordi. Il regista è Lauri-Matti Parppei. L’ho trovato molto commovente e pieno di promesse.

Hai dei rituali o abitudini che ti aiutano a entrare in modalità creativa?
Sì, anche se variano. Per me, la sauna è spesso quello spazio. Sono finlandese, quindi è una parte importante della mia vita. Il calore mi libera la mente, spegne il rumore cosciente, e all’improvviso le idee arrivano. È questo il bello della creatività: è difficile forzarla. Puoi nutrirla leggendo, guardando, osservando, ma non sempre si manifesta a comando. A volte arriva proprio quando smetti di cercarla.

“è questo il bello della creatività: è difficile forzarla.”

Recitare spesso ti mette di fronte ad aspetti inesplorati dell’essere umano, aiutandoti a comprendere meglio te stessa. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto su di te attraverso il tuo lavoro?
Credo che la recitazione diventi tanto più interessante quanto più vai in quei luoghi scomodi, imbarazzanti, persino pieni di vergogna. Più ti spingi lì, più ti senti viva e forte. Accettare le mie debolezze o la mia tristezza mi rende più potente.
Penso che a volte, condividendo i pensieri più orribili o vergognosi che credi di essere l’unica persona ad avere, ti accorgi che forse altri provano lo stesso. Ed è liberatorio.
Tutti lottiamo con pensieri difficili e, in qualche modo, accettare i luoghi oscuri dentro di noi ci permette di imparare di più su noi stessi. Entrarci aumenta la mia empatia verso me stessa, ed è bellissimo. Penso che sarà un viaggio per tutta la vita imparare ad avere empatia verso me stessa. Perché è facile averla per amici e familiari, non li giudichi mai per i loro pensieri oscuri, anzi li ami di più.
Abbiamo tutti persone vicine con difetti, ed è questo a renderle interessanti – non essere perfetti, perché nessuno lo è. Imparare ad avere la stessa empatia verso se stessi è un processo infinito, ma bellissimo.



Cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Penso che significhi tutto. Essendo stata una giovane donna negli anni ’90 e 2000, sono sicura che allora non eravamo a nostro agio nei nostri corpi. E ora, guardando le nostre foto da giovani, penso che eravamo tutte bellissime e perfette. La quantità di critiche con cui ci giudicavamo, a causa della società che insegnava questo alle ragazze, mi fa dispiacere: abbiamo sprecato tanto tempo a criticare i nostri corpi.
Tuttavia, sono felice che il mondo sia un po’ cambiato. Quando guardo me e le mie amiche invecchiare, penso che stiamo solo migliorando, diventando più accoglienti e serene nella nostra pelle, ed è una gioia. Certo, credo che per le nuove generazioni sia molto più difficile, a causa dei social media, che fanno lottare le ragazze tantissimo.
Ma per me, più invecchio, più inizio ad amare il mio corpo, la sua forza, ed è quella forza a darmi anche forza mentale. Penso che la forza del mio corpo sia più importante del semplice “mettersi in forma” per piacere a qualcuno. È quella forza a darmi conforto.



“Più invecchio, più inizio ad amare il mio corpo, la sua forza, ed è quella forza a darmi anche forza mentale.”


Qual è il tuo posto felice?
Il mio posto felice sono le persone che amo.
Amo l’acqua, amo andare in un piccolo cottage sul mare, amo l’autunno, amo quando non c’è troppo sole ma è un po’ tempestoso, e piove, e sei nel mezzo del nulla, e il mare si agita. È quello che spero per il prossimo autunno.
Ma non sarebbe mai il mio posto felice se non fossi lì con persone importanti per me. Non mi sono mai sentita molto legata a una casa o a un luogo specifico, ma sono sempre stata molto legata alle persone. Quindi, ovunque siano loro, io sono felice di esserci.

Photos and Video by Johnny Carrano.
Styling by Ilaria Di Gasparro.
Makeup and Hair by Sveva Del Campo.
Location: Cascina Gazzeri.
Thanks to Premier Comms.

