C’è qualcosa di magnetico in Giulio Greco. Una combinazione di lucidità e trasporto rara, una gentilezza che non fa sconti alla profondità. In lui c’è l’attore, il regista, il musicista, lo scrittore – ma anche il bambino che recitava davanti amici e parenti, costruendo mondi immaginari e alimentando quella che sarebbe diventata una passione per la vita. Ed è da lì, forse, che parte tutto: da quel bisogno primario di raccontare e raccontarsi.
E lo fa, racconta e si racconta, nella nostra Cover di luglio.
Giulio è uno di quei rari interpreti che sembrano portare ogni personaggio dentro di sé molto prima di vestirne i panni sulla scena, come se fossero parte di un dialogo interiore già in atto. Lo dimostra il ruolo di Manfredi in “Prophecy”, in uscita questo mese su Disney+. Lo conferma la sua interpretazione in “Gangs of Milano”, secondo capitolo del già cult “Blocco 181”, dove porta in scena un antagonista lucido, disturbante, ma anche umano.
Sullo schermo, Giulio incarna con lucida ferocia le contraddizioni del nostro presente. Ma lo fa soprattutto fuori scena, ogni volta che sceglie di mettere la propria voce, la propria pelle e le proprie domande al servizio di una generazione che ancora cerca spazio, senso, verità.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Sai, io ho iniziato facendo pubblicità da piccolo, ma ho da sempre avuto un certo feeling con il “palcoscenico”. Facevo tantissimi spettacoli in casa con mio fratello, cose davvero interessanti per un bambino di quattro anni: mio padre ci filmava con una piccola videocamera e ha tenuto tutti i video di noi “piccoli attori”. Nella nostra casa estiva nel sud della Francia c’è una grotta in cui io e mio fratello ci preparavamo, era il nostro backstage, e poi invitavamo i nostri genitori, gli amici e la gente del paesino a vedere i nostri spettacolini. L’abbiamo fatto per anni, fino ai miei 14 anni penso. Attraverso questi spettacoli mi sono un po’ avvicinato al mondo della recitazione.


Proprio come Briony Tallis in “Espiazione”! Hai presente? Il libro e il film.
Ah, devo assolutamente leggere questo libro e vedere il film! Ecco, a proposito di ricordi più strettamente legati ai film, ricordo che i nostri genitori hanno sempre portato me e i miei fratelli al cinema, così come a teatro e ad ascoltare musica classica. Ricordo quando siamo andati a vedere il primo de “Il Signore degli Anelli” di cui io sono un grande fan, insieme alla saga di Harry Potter, che inevitabilmente sono tra i miei primi e più pregnanti ricordi.


E ora sei uno dei protagonisti del secondo capitolo di “Blocco 181”, diventato “Gangs of Milano”. In che direzione si sta muovendo questa nuova narrazione?
Sicuramente, il linguaggio viene da “Blocco”: la storia gira intorno alle stesse tematiche, ma la forza di “Gangs” è il fatto che qui c’è ancora più apertura a livello di storia. La parte dedicata alla Milano un po’ più “decadente”, insieme alla controparte, la “Milano Bene”, è stata un po’ più ampliata. Così, in “Gangs” si racconta più profusamente la sregolatezza totale, il potere dei soldi, l’idea che col denaro puoi comprare non solo le cose ma anche le persone, e al contempo la vita di periferia, che è descritta in maniera incredibilmente reale.
Io per anni ho giocato a calcio nella periferia di Milano, contro giocatori che avevano condizioni di vita non semplici, che spesso sfogavano la loro rabbia nello sport e anche fuori dal campo. Secondo me, i registi sono stati bravissimi ad approfondire, a non affrontare certe tematiche solo dal punto di vista del divertissement, ad andare più a fondo.
Questa serie ti racconta una dimensione diversa e inedita rispetto alle altre “serie cugine”, quelle che descrivono le periferie delle grandi città. Milano, in effetti, ha delle dinamiche diverse rispetto alle altre città italiane a livello sociale, umano: c’è una parte della città che è completamente sopra le righe. Leggevo che Milano è diventata tra le cinque principali città in Europa mirino degli ultraricchi con patrimoni superiori ai 30milioni di euro. Questo lusso e tutte le comodità che questa città comporta e offre vanno in netto contrasto con la criminalità che c’è – Milano è infatti anche la città col tasso di criminalità più alto in Italia.



“Questa serie ti racconta una dimensione diversa e inedita rispetto alle altre ‘serie cugine’, quelle che descrivono le periferie delle grandi città.”

C’è un divario immenso tra ricchi e poveri a Milano.
Esatto, la popolazione non è unita, la periferia e il centro non si mischiano, chi vive in periferia non frequenta il centro e viceversa. Poi, c’è un anello ancora più esterno composto da tutti quei paesi che costellano Milano e che sono ancora un’altra realtà, “sani”, tranquilli e anche belli, come Monza, Abbiategrasso, eccetera. È nella fascia tra questi e il centro di Milano che succede un po’ di tutto, ciò che “Gangs” racconta benissimo.


È verissimo. Io mi sono da poco trasferita dalla periferia al centro di Milano, e mi sembra di aver cambiato città. Dall’architettura e la cura urbanistica, al modo di vestire e di comportarsi delle persone, soprattutto, sono due dimensioni completamente diverse.
Certo, due mondi! E la serie parla anche di questo, crea personaggi che si inseriscono benissimo in dinamiche reali. Personaggi cattivi, soprattutto, come il mio che ha delle battute davvero orribili, perché le parole non hanno più peso in un mondo in cui con il denaro si può comprare tutto e tutti.


Com’è stato lavorare in una serie così legata alla strada, con dinamiche di gang, codici, lealtà e potere? Ti sei preparato in modo specifico per questo ruolo?
Ho avuto la possibilità di conoscere il mondo della notte, perché ho lavorato nei locali per tanti anni prima di fare questo lavoro, quindi certe dinamiche le conoscevo perché le ho vissute sulla mia pelle. Non ho mai fatto uso di sostanze, perché mi ha sempre fatto paura, ma ho visto continuamente scene simili a quelle raccontate dalla serie svolgersi davanti ai miei occhi. Il mio personaggio è sopra le righe a causa dell’uso di cocaina che fa, che lo riduce in quello stato, perché vuole scappare dal suo background, così come molti ragazzi che vengono da una buona famiglia e sono succubi dei fratelli maggiori, dei padri, della dimensione familiare in generale che li schiaccia con un’enorme pressione sociale – in quei casi, la droga diventa un po’ una scappatoia.
Quella di Piero, il mio personaggio, è una maschera sociale incredibile che nasconde una grande sofferenza, e che paradossalmente i ragazzi della periferia invece non indossano.



In “Prophecy” invece interpreti Manfredi, un ruolo centrale in un film intenso e visionario. Chi è Manfredi e che tipo di storia si racconta attraverso di lui?
Manfredi è ancora una volta un antagonista. Mi piace il fatto che ultimamente mi fanno interpretare i cattivi dei film, è bellissimo perché mi sto conoscendo molto di più mettendo in luce la parte oscura di me. Io penso che tutti noi dentro abbiamo un demone, nel senso greco del termine, il daimon, che ci dà le pulsioni, che ci porta da una parte all’altra nella vita, che è la nostra parte animalesca.
Insomma, Manfredi è l’antagonista della storia che indossa, proprio come Piero, una maschera sociale, quella del successo. Lui vuole far vedere agli altri che ce l’ha fatta, vuole insegnare agli altri come fare il “business angel”, l’angelo del business. È incredibile come questo film contenga dei messaggi importanti e attuali, a partire da Manfredi che rappresenta proprio la società odierna: lui, ad esempio, dà quindici secondi di tempo alle persone per catturare la sua attenzione, proprio come la società di oggi che ti concede pochissimo tempo per far vedere chi sei. Ma non funziona, non basta. A proposito di tempo, ti faccio un esempio concreto: in questo momento sono nel mezzo di una vacanza in van a Maiorca, e solo ora sto capendo che sto vivendo, solo adesso che sto avendo del tempo per me.
Mi piace immaginare questa scena: noi corriamo velocissimo, il nostro corpo sta andando a 50 all’ora, ma la nostra anima non riesce a seguire quella velocità, e non perché sia lenta di per sé, ma perché ha bisogno di tempo per respirare. Poi, quando ti fermi, l’anima ti raggiunge, e tu stai male perché scopri che non c’è stata né sincronia né sincronicità tra la velocità del tuo corpo e quella della tua anima. Più dura questo distacco, più il dolore è profondo.
Alla fine, fa sorridere ma fa anche pensare che Manfredi ruba a Giona l’idea di una startup, e Giona per farsi giustiziere e paladino della giustizia, crea per sé stesso e indossa una maschera di giornale su cui c’è la faccia di Manfredi. Ma la cosa devastante è che il vero uomo con la maschera non è Paperboy, ma è Manfredi: Paperboy è solo un ragazzo giovane e brillante che deve indossare una maschera “concreta” per combattere contro un uomo che indossa invece una maschera sociale. Questo mi fa pensare alla situazione italiana, dove i giovani brillanti devono trasferirsi in altri Paesi perché a casa non hanno spazio, oppure hanno solo “quindici secondi per farsi vedere”. Questa battaglia tra Manfredi e Paperboy è proprio la battaglia delle maschere, con un vago richiamo alla Commedia dell’Arte se vogliamo. Il film, insomma, è scritto benissimo, rappresenta uno spaccato della società di altissima qualità.



“Solo ora sto capendo che sto vivendo, solo adesso che sto avendo del tempo per me.”

Ma tu come scegli i tuoi progetti? Cosa ti fa dire di sì e cosa ti fa dire di no?
Il lato umano, prima di tutto, e poi il lato artistico: ovviamente, mi deve piacere il personaggio.
Le due cose vanno a braccetto: può piacermi tantissimo il personaggio, ma se poi non ci sono degli esseri umani che hanno sogni e a cui brillano gli occhi incluse nel progetto, non è la stessa cosa per me, quel progetto non mi convince più. Finora, ho sempre lavorato con persone in cui ho percepito la vita, la passione, nonostante, in alcuni casi, le difficoltà, magari il budget basso. Nei progetti in cui ho lavorato si sono sempre create delle squadre e io amo i giochi di squadra. Nel calcio, per esempio, perché a volte vincono le squadre meno blasonate o che non hanno le centinaia di milioni di euro? Perché sono un team pazzesco con un allenatore pazzesco. Il team vince sempre secondo me, e nei film lo si percepisce chiaramente.


Hai lavorato in contesti molto diversi, da set italiani a quelli americani. Che differenze hai riscontrato nel modo di fare cinema tra Italia e Stati Uniti?
In America il cinema è un business, il che non necessariamente è un male. In Italia, per esempio, spesso non è considerato un business e si ragiona più in termini di: “Facciamo un film, facciamo qualcosa di artistico”. Ma non basta, le persone vanno pagate, la serietà è necessaria anche nell’arte. In Italia è bellissimo perché c’è la passione, c’è il cuore latino pulsante, c’è la versatilità, la conoscenza e la creatività, ma noi dovremmo utilizzare questo nostro lato brillante, valorizzarlo e unirlo al lato business.
Non dimentichiamoci che il cinema è un lavoro, e non solo arte.


È che spesso e purtroppo noi abbiamo questa idea stereotipata del lavoro come di qualcosa che non ci può piacere in nessun modo, per definizione. Il mestiere dell’attore, quindi, che recita perché di recitazione è appassionato, alcuni fanno fatica a considerarlo “un lavoro vero”.
Esattamente. In Francia invece, ad esempio, c’è un equilibrio superiore da questo punto di vista, perché lì il lato artistico del mestiere è importante tanto quanto quello sociale: ci sono i sussidi statali di discontinuità per gli attori, che in Italia non riusciamo ad ottenere ed è folle. In Francia, invece, se una persona perde il lavoro, qualunque esso sia, ha dei sussidi, mentre in Italia gli attori non hanno la disoccupazione, evidentemente perché il loro non è considerato un lavoro. Mi chiedo davvero perché… Un Paese dovrebbe valorizzare gli artisti, perché sono gli artisti che dall’alba dei tempi si mettono a servizio della società per raccogliere, rielaborare e trasmettere quello che sta accadendo nel mondo contemporaneo in correlazione a quello che è successo prima, in visione di un futuro prossimo.
Non ci si può, infatti, improvvisare artisti, perché gli artisti hanno un certo grado di responsabilità sociale.


“…sono gli artisti che dall’alba dei tempi si mettono a servizio della società per raccogliere, rielaborare e trasmettere quello che sta accadendo nel mondo contemporaneo”


Così come non ci si può improvvisare scrittori, e non si può pubblicare chiunque abbia un tot numero di follower sui social… Mi viene in mente questo fenomeno diffusissimo oggi.
Guarda, che rabbia. Io da 15 anni ho una casa editrice, la Giuliano Ladolfi, e sono un tuo collega, sono un giornalista pubblicista. Per questo, capisco benissimo quello che dici. È necessario mettere dei paletti che derivino da uno studio sociale e artistico della società moderna. Se diamo in mano film, serie, libri a persone non qualificate, i contenuti diffusi non potranno mai essere davvero interessanti, perché vengono da persone che non sono preparate per produrre o trasmettere nel modo corretto contenuti interessanti.


Hai mai pensato di passare dietro le quinte, magari dirigere o scrivere qualcosa di tuo?
L’ho fatto! Recentemente, ho messo in scena uno spettacolo teatrale a Gorizia che si chiama “Tra due fiamme”. Si tratta di un adattamento di un romanzo di Umberto Zuballi, io ho scritto la sceneggiatura, mi sono occupato della regia ed ho anche recitato: mi è piaciuto da morire. Abbiamo realizzato questo spettacolo in collaborazione con la regione Friuli-Venezia Giulia, perché Gorizia è città della cultura europea 2025 e siamo entrati negli eventi di GO!2025. Ci hanno proposto di riprodurre rappresentazioni dello spettacolo nelle scuole in tutto il Friuli e io sono super fiero del nostro lavoro. Ho avuto a che fare con persone veramente stupende in questo spettacolo, delle grandi persone che spingono l’arte.
Ho diretto anche tre videoclip, perché sto per uscire con un disco a cui sto lavorando da più di un anno insieme al mio produttore, Francesco Arpino. Si tratta di un EP pop con un tocco di country e rock.
Insomma, la regia è un mondo che mi affascina molto: quando sto seduto sulla sedia e guardo il monitor, mi emoziono. E io amo emozionarmi.



Qual è stato il tuo più grande atto di coraggio?
Non solo perdonare, ma amare senza limiti delle persone molto vicine che mi hanno fatto un gran male.

Qual è la tua più grande paura invece?
Sai, a me piace conoscere me stesso e gli altri e vivere una vita vuota sarebbe il peggio che potrebbe accadermi. La mia più grande paura, quindi, è arrivare alla fine della vita con l’amaro in bocca, col pensiero di non aver fatto abbastanza per me stesso e per gli altri, soprattutto per gli altri.
Il mio più grande sogno, dopo quello di avere una famiglia e dei bambini, è di poter condividere e trasmettere, soprattutto ai giovani, fiducia. Spesso mi invitano a parlare nelle scuole, cosa che adoro fare. Quando ero adolescente, sognavo che qualcuno mi prendesse per mano e mi dicesse: “Va tutto bene”. Ieri parlavo con una ragazzina di 12 anni che vuole fare l’attrice: ho intuito che voleva che io le dicessi qualcosa, e io da una parte non volevo infrangere i suoi sogni, dall’altra non volevo nemmeno farla vivere dieci metri sopra la terra, illudendola; quindi, le ho detto: “Chiediti sempre il perché, perché fai le cose, perché vai in una certa direzione, e risponditi con la più grande trasparenza e onestà, per te stessa e non per gli altri”. La grande differenza sta nella domanda, anzi, nella domanda giusta. Mi è piaciuto tanto parlare con lei.

“La grande differenza sta nella domanda, anzi, nella domanda giusta”

Un bellissimo incontro, sicuramente la ragazza non ti dimenticherà. Ma a proposito di domande, consapevolezza di sé e degli altri, cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Stai riuscendo a farmi piangere al telefono, di emozione ovviamente. Queste sono domande da psicoterapia, che è fondamentale e parlo per esperienza personale, io vado dallo psicologo che mi aiuta tantissimo.
Che cos’è la pelle? La pelle non è un semplice rivestimento, è un organo. La pelle è ciò che ti mette in contatto con il mondo, che ti fa sentire il caldo e il freddo, i brividi delle emozioni, le sensazioni del tocco, dei baci e delle carezze degli altri. La pelle è il luogo di contatto della vita, è tutto. Sentirsi bene nella propria pelle, dunque, significa innanzitutto prendere coscienza di cosa è la pelle stessa. E non è una questione estetica, è una questione fisica e spirituale: noi vediamo sempre la pelle come una delimitazione, come se il nostro corpo finisse lì, ma non c’è niente di più sbagliato, la pelle è tutt’altro.
Dove sono i nostri confini? Sei prima in una parte del mondo e poi in un’altra, pensi a qualcuno e nello stesso momento quel qualcuno sta pensando a te e ti chiama proprio in quel momento… I confini non esistono. Sentirsi bene fisicamente nella propria pelle è solo uno degli stati di conoscenza: c’è un altro stato, la conoscenza di noi stessi al di là della nostra pelle.
Ho visto un video che mostrava cosa succede quando lo spermatozoo feconda l’ovulo: si sprigiona un bagliore di luce che è definito come energia che si crea nel momento dell’unione. A me piace pensarla più romantica, mi piace pensare che in quel momento il bagliore di luce è la vita che si crea. Ma si tratta di qualcosa che noi non capiamo e che è il bello della magia, secondo me, il non poter capire tutto e stare in pace con questo. Insomma, sentirsi bene nella propria pelle significa conoscersi, tenendo però a mente che ci sono tanti livelli di conoscenza. Purtroppo, però, viviamo nel mondo del trionfo dell’immagine, in cui l’unico dei sensi a cui ci attacchiamo e quello della vista, il che è ridicolo.


Ed è uno spreco vivere così.
Ora ti faccio un’ultima domanda: cosa vorresti vedere fuori dalla finestra? Qual è la tua isola felice?
Vorrei vedere la natura fuori dalla finestra, perché nella natura ci sono cresciuto. Nello specifico, vorrei vedere una natura rispettata, inclusa la natura dell’essere umano. Con tutto quello che sta accadendo quest’anno in Palestina, dalla finestra vorrei vedere una presa di coscienza globale. È difficilissimo, utopico, ma la mia isola felice è un mondo in cui la gente dà più attenzione a ciò che veramente conta, a tramandare agli altri, a voler bene, alle persone che abbiamo accanto.
Parliamo con le persone, assicuriamoci che stiano bene, apriamo gli occhi, guardiamo gli animali, badiamo a come vengono trattate le piante: smettiamola di annullare i sensi, chiuderci occhi e orecchie e stare in apnea.
Davanti a me in questo momento leggo la scritta “Happy Hour”: alcol a prezzo ribassato dalle 16.30 alle 18.30. Ma non ti fa ridere questa cosa?


Sì, mi chiedo perché a rendere la mia ora felice debba per forza essere l’alcol.
Bravissima. Perché l’alcol? Perché deve farti dimenticare quello che c’è in giro?
E dimenticare di te stesso dandoti l’illusione della felicità. Che però dopo qualche ora svanisce.
Proprio così.

Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
Model: Elena Bossi.
Thanks to Sara Battelli.
LOOK 1
Trousers: GAS
Sweater: Nude Project
LOOK 2
Total Look: Uniqlo
LOOK 3
Total Look: Adelbel
Shoes: Santoni
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