Incontrare Rosa Matteucci non è stato semplicemente parlare di un libro, ma varcare la soglia di un mondo interiore denso, stratificato, intriso di dolore, ironia e grazia. Il suo “Cartagloria”, edito da Adelphi e presentato al Salone del Libro di Torino di quest’anno, è molto più di un romanzo: è un atto liturgico, una preghiera sgangherata e potente, una resa dei conti con la vita e con sé stessi. In queste pagine si avverte il peso della memoria, ma anche il desiderio feroce di riscattarla attraverso la scrittura, che per Rosa non è mai esercizio accademico o gioco d’intelletto, bensì gesto necessario, atto vitale.
Questa intervista nasce con lo spirito dell’ascolto profondo. Le parole di rosa, come il linguaggio del suo romanzo, non ci lasciano mai immobili: ci pungolano, ci costringono a guardare oltre. Dentro “Cartagloria” ci sono fantasmi e rivelazioni, ci sono i padri, le madri, le croci da portare, le parole da dire finalmente ad alta voce. Ma soprattutto, c’è il coraggio di esporsi, di non nascondersi più, nemmeno dietro la letteratura.
Entrare nel suo universo è accettare di farsi toccare in profondità, con la consapevolezza che la libertà può trovarsi nell’atto stesso dell’accoglienza del proprio destino.
Com’è stato il suo primo incontro con un libro?
Ho imparato a leggere e a scrivere tardi, quindi mia madre mi leggeva quello che leggeva lei. Il primo ricordo che ho è di mia madre che leggeva le poesie di Rainer Maria Rilke in tedesco, poi me le traduceva in italiano.
“Cartagloria” è un viaggio attraverso la vita con tutti i suoi ingredienti: le fantasie, i sogni, le aspettative, le speranze, le false speranze, gli accanimenti, gli incidenti, i miracoli. Quanto c’è della sua esperienza in questo romanzo?
C’è tutto, io non invento quasi niente, tutto quello che scrivo mi è effettivamente capitato.
Scrivere è un piacere, ma spesso secondo me è anche esigenza, terapia: da cosa è nata l’esigenza di scrivere “Cartagloria” e in che modo questa esigenza si è trasformata nel corso della scrittura?
Io ho scritto perché non volevo che mio padre fosse morto invano e che quindi vivesse nella letteratura. Poi è un po’ come le ciliegie, una tira l’altra e siccome “Lourdes” è stato un romanzo che mi ha stupita in positivo, poi ho seguitato. Comunque, penso che ci sia un lavoro interiore, io faccio delle cose normali e ad un certo punto mi si fa chiara in testa una storia che in qualche modo devo scrivere e lo faccio malvolentieri, perché è faticoso scrivere.
Tra gli elementi che ho più apprezzato del suo libro c’è la lingua che usa: un italiano che non ci fa star seduti comodi, che esige la nostra attenzione, un linguaggio sicuramente complicato ma evocativo, perfettamente visualizzabile. Penso ad espressioni come “passo marziale” o “Ostia marinata nello scrigno della bocca”. Trovo apprezzabile un libro che mi insegna qualcosa anche dal punto di vista linguistico, che prende il 100% della mia attenzione e che dopo l’ultima pagina mi fa sentire arricchita. Sulla base di queste riflessioni, lei cosa pensa del panorama letterario attuale?
Più che del panorama letterario attuale, quello che penso è a che cosa si sia ridotta la lingua italiana. Il vocabolario medio usato dai giovani e dalle persone si restringe a circa 250 parole, il che è una cosa terrificante. La lingua si è impoverita. L’italiano è una lingua così raffinata, è una lingua talmente bella per cui c’è un termine per ogni cosa… Io non ho usato nemmeno un anglismo, io uso l’italiano. In questi ultimi anni la lingua italiana ha subito una serie di violenze anche cassate dalla stessa Accademia della Crusca; sono stata perplessa, ma ho seguito a scrivere in italiano, non mi interessa se fanno questi cambiamenti. Poi la cosa che ho notato è che i lettori mi dicono: “Che bello leggere finalmente in italiano”, questo mi fa piacere.

Nel corso del viaggio spirituale della protagonista, è come se i personaggi di ogni tappa siano manifestazioni variabili di una messa alla prova, riti di passaggio per l’acquisizione di una consapevolezza totale del SÉ nel mondo. È questo l’effettivo filo conduttore della storia? I “personaggi” della nostra vita sono tutti “strumenti” per la comprensione di qualcosa di più grande secondo lei?
La chiave di lettura è perfetta, anche se quando lo scrivevo non ne ero consapevole. E assolutamente sì sul fatto che i personaggi della nostra vita siano strumenti per la comprensione di qualcosa di più grande.
Gli “stacchetti” sul padre condottiero e la protagonista sua aiutante sono meravigliosi e disorientanti: “Jack London – Il vagabondo delle stelle” è il primo riferimento che mi è venuto in mente leggendo quelle parti, con le sue storie di reincarnazione a partire da un luogo presente di prigionia. Chi sono le sue fonti letterarie di riferimento, che ti hanno formata e che continuano ad ispirarla?
Coscientemente, non ci sono fonti di ispirazioni, ci sono degli scrittori che nella mia vita hanno contato molto perché leggevo quelli. Conosco bene tutto il ciclo di Émile Zola: quando ero più giovane ce ne erano pochissimi tradotti in italiano e io l’ho letto in francese; per certi versi, sicuramente mi ha formato nel realismo, nella descrizione dei dettagli.
Tra i temi centrali del romanzo: senso di inadeguatezza, non appartenenza e solitudine manifestatasi a monte da genitori “assenti” e affatto amorevoli. Se potesse in questo momento dire qualcosa alla sua protagonista nelle varie fasi della sua vita, cosa le direbbe?
Che finora in tutti questi anni non ti ha vista nessuno; invece, ora finalmente ti vede tanta gente. Io ho bisogno di essere vista.
Che rapporto ha oggi con la solitudine? La cerca o la teme?
Ho bisogno sicuramente ogni giorno di stare almeno due ore e mezza da sola. Conosco bene la solitudine perché sono stata sola per tanti anni quindi non mi fa tanta paura anche se la mancanza di contatto con gli altri ti inaridisce; quindi, anche se uno non ha voglia di conversare e di intrattenersi, per il proprio benessere nella vita a volte bisogna sforzarsi di farlo.
Come si trova, dunque, il proprio posto nel mondo, la “congrega che ci accoglie”? Lei li ha trovati?
Nel momento in cui accetto di portare la mia croce, accetto il mio destino, da quel momento in poi sono libera; è stata una ricerca lunga e non facile, per cui adesso mi sento libera.

Il libro sul suo comodino in questo momento.
Ce ne sono parecchi perché leggo o rileggo tante cose in contemporanea. Adesso c’è “L’Assommoir” di Émile Zola, che ormai conosco a memoria. Poi c’è un altro di Michael Bible e un saggio di Marco Patricelli, che è uno storico, sulla fuga del re e di Badoglio da Roma nel 1943. Poi c’è sicuramente “Trilogia della città di K” di Ágota Kristóf.
C’è qualcosa di nuovo che ha scoperto su sé stessa durante o dopo la scrittura del romanzo?
Ho scoperto che per tanti anni ho pensato di essere brutta rispetto a mia madre e invece non sono mai stata brutta.
Cosa significa per lei sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Essere in pace con me stessa.
Ma qual è la sua isola felice?
Secondo me non esiste, perché comunque si è sempre in balia delle forze che agiscono.
Ultima domanda: cosa ci consiglia di leggere?
“Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes.
Thanks to Adelphi Edizioni
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